Non c’è alternativa
alla moneta unica

Euro e Unione Europea sono al centro del dibattito di questi giorni. Poco più di un anno fa, a Roma, si celebrò il sessantesimo anniversario della firma, in Campidoglio, dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea: l’Italia, con Francia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, fu tra i Paesi fondatori. Il Mercato economico europeo ottenne subito buoni risultati, conferendo un forte stimolo alle economie dei Paesi associati, che conobbero tutti, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, una forte espansione.

Primo Levi scrisse: «Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo». Francia e Germania si sono combattute in due sanguinosissime guerre, che hanno caratterizzato il Novecento. L’Unione Europea ha posto fine a un storico duello economico e militare.

Sul piano politico, la spinta all’integrazione, purtroppo, rallentò presto, frenata dal peso delle tradizioni e degli egoismi nazionali. Nei giorni scorsi, al termine del primo tentativo, fallito, di Giuseppe Conte di formare il nuovo governo, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella spiegò che la nomina di Paolo Savona, 81 anni, a ministro dell’Economia avrebbe potuto «provocare probabilmente o addirittura inevitabilmente la fuoruscita dell’Italia dall’euro», aggiungendo che, per tutelare i risparmi di aziende e famiglie italiane, non avrebbe potuto permettere una simile eventualità. Con queste parole, allarmanti, vista la sua riconosciuta autorevolezza, ha reso immaginabile che potesse diventare possibile nella realtà, con la nuova situazione politica creatasi dopo le elezioni del 4 marzo, un’ipotesi finora solo accademica.

Certo, i continui rimbrotti da Bruxelles sui conti dell’Italia sono fastidiosi, come quelli di un professore troppo severo. L’ancoraggio all’euro, però, ha salvato l’Italia dal tracollo finanziario. L’attuale situazione economica del Paese non è dovuta alla moneta unica. Del debito pubblico sono responsabili i governi del passato, che preferivano scaricare gli oneri sulle generazioni future, invece di assumersi, fino in fondo, le proprie responsabilità davanti agli elettori. Smettiamola di parlare male dell’euro e dell’Unione Europea, come se si trattasse di una banale partita di pallone tra Italia e Germania. Solo il rigore nella tenuta dei conti, impostoci dall’Europa, ha salvato e sta tutelando il futuro dell’Italia e dei nostri figli. L’Unione è come una famiglia, dove ci sono delle regole da rispettare, anche se in Italia c’è sempre stata la tendenza allo scaricabarile: «Piove, governo ladro». Ora, se qualcosa non va per il verso giusto, si dà la colpa all’Europa. I nostri parlamentari sono tra i più assenteisti di tutti a Strasburgo, nonostante le lussuose prebende. Cambiano ogni cinque anni, perché vedono il Parlamento europeo come una panchina rispetto a quello italiano. Parlano poco e male le lingue. Mancando questi requisiti, come possiamo contenere la tendenza della Germania, ad apparire la prima della classe, e l’asse franco-tedesco? Abbiamo perso la possibilità di avere a Milano la sede dell’Ema, l’Agenzia europea dei medicinali, «perché – come osserva Antonio Tajani, l’italiano presidente del Parlamento europeo – siamo isolati rispetto ad altri Stati membri». Ora abbiamo lui e Federica Mogherini, rappresentante dell’Unione per gli affari esteri. Soprattutto Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, l’istituzione responsabile della politica monetaria. Proprio lui ha tutelato in Europa i nostri interessi nazionali. Verrà un giorno, però, in cui dovremo cavarcela da soli, senza superiori protezioni.

Ora ci auguriamo che non ci sia più chi si senta autorizzato, se non come mera ipotesi teorica, a parlare di uscita dall’euro. Per l’Italia sarebbe un completo disastro. Non siamo affatto economisti, come la stragrande maggioranza degli italiani. Chi avanza l’ipotesi dell’uscita dovrebbe spiegare bene, in che modo e con quale moneta, lo sostituirebbe. Con una rinata lira? I risparmi degli italiani diventerebbero carta straccia. Basti vedere quanto valgono le valute dei Paesi parte dell’Unione ma fuori dall’euro. Meglio avere una moneta paragonabile al lev bulgaro, alla kuna croata o al fiorino ungherese? Si vorrebbe questo per l’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea e membro del G7? Parlare davvero, e non accademicamente, di uscita dall’euro significa semplicemente scherzare, pericolosamente, con il fuoco e con i risparmi degli italiani. Senza l’euro, per garantire un futuro, non ci sarebbe altra possibilità se non quella di adottare un’altra moneta straniera forte, il dollaro, il franco svizzero o lo yen. Finendo allora sì, in questo caso, per perdere l’indipendenza nazionale, oltre che la dignità. I Paesi europei, oggi più che mai, devono restare uniti, per competere sulla scena internazionale con i colossi in ascesa. Basti pensare agli Stati che contano ciascuno circa un miliardo e trecentomila abitanti, la Cina, con un pil che, nel primo trimestre 2018, è cresciuto del 6,8%, e l’India, con una crescita del 6,5% annuo.

Rendiamo merito alla determinazione con cui, nel maggio 1998, l’allora ministro del Tesoro, il compianto Carlo Azeglio Ciampi, ci portò all’ingresso nell’Unione monetaria europea. Ridusse il deficit del bilancio statale entro il rapporto del 3 per cento con il prodotto interno lordo, il più importante dei parametri fissati a Maastricht per l’ammissione nel sistema della moneta unica europea, avvenuto a partire dal 1° gennaio 2002. Una data che andrebbe ricordata, ogni anno, come una festa per il futuro dei nostri figli.

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