Povera Italia, senza Eco

Eco attribuiva il suo successo internazionale al cognome breve. È l’atteggiamento - giudicato molto piemontese, il grande intellettuale appena scomparso era nato proprio ad Alessandria - definito con una parola inglese «understatement».

Antiretorico e alieno da qualsiasi ostentazione. Che non manca nell’elogio arrivato da tutto il mondo: chissà se gli sarebbe piaciuto. Così lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua su Umberto Eco: «Una classica figura rinascimentale, un uomo di gaia scienza, la sua erudizione era traboccante, al punto che si trovò costretto a rivolgersi alla letteratura. I suoi romanzi erano originali e sofisticati, al tempo stesso storie avvincenti ed esercizi filosofici e intellettuali».

Dall’America lo scrittore Gay Talese, con una provocazione, lo descrive così: «Il più alto esponente della cultura popolare in Italia e tra i più alti al mondo». Il New York Times: «Un accademico da best seller: ha cercato di interpretare le culture attraverso i segni e i simboli con parole, icone religiose, spartiti. Era capace di fondere due mondi, quello accademico e quello letterario, senza mai perdere il contatto con il pubblico e la realtà».

L’Italia è stato il Paese dove ha avuto origine una buona parte della cultura occidentale e, fino a mezzo secolo fa, aveva ancora eccellenze internazionali, tra le quali Eco, scopritore del dialogo tra la cultura alta e quella popolare. Lì la grandezza dell’intellettuale: per lui i fumetti e Mike Bongiorno erano da studiare come San Tommaso. Ora che cosa rimane? Sembra che ci sia rimasta solo la moda, cioè una banale forma di ostentazione. Povera Italia, senza Eco.

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