Scuola, quando le medie
erano le scuole migliori

L’anno scolastico è alle ultime battute. Entro la prima metà di luglio finiranno gli esami di maturità. A fine mese ci saranno gli ultimi appelli all’università. In agosto si fermerà tutto: purtroppo, per gli insegnanti, ci sarà il rientro proprio nell’ultima settimana, con il risultato, assurdo, di toglierne una di vacanza. Chi continua a sostenere che i docenti abbiano tre mesi di ferie si renda conto che, in realtà, hanno 35 giorni, come tutti gli altri lavoratori. Tre settimane a luglio e tre ad agosto.

Forse un tempo avevano certi privilegi, come quello di poter andare in pensione dopo soli 14 anni, sei mesi e un giorno, se donne sposate e con figli. Aggiungiamo che bastavano 20 anni per gli altri statali, 25 per i dipendenti degli enti locali. Insomma l’Italia, se paragoniamo i requisiti per le pensioni di allora con quelli richiesti oggi, era un po’ come il Paese dei Balocchi. Chissà. La guerra era finita ancora da poco. Essere dipendenti pubblici era considerato ancora, in un certo senso, un servizio alla Patria da remunerare generosamente. Non riusciamo a trovare altre spiegazioni a simili assurdità.

La scuola è cambiata moltissimo in questi decenni. Oggi si parla molto di politici non laureati e solo diplomati. Se ripensiamo alla nostra carriera scolastica, e costruiamo una gerarchia di quanto ha lasciato un’impronta maggiore nella nostra educazione, tra elementari, medie, superiori e università, scegliamo le medie. Le nostre erano le Petteni in città, proprio quelle che nei mesi scorsi hanno abbattuto e ricostruito. Una scuola eccezionale, completa, con una particolarità che, oggi, appare addirittura incredibile. In una statale, c’erano ancora sole classi maschili o femminili, persino con ingressi divisi. Stiamo parlando degli anni Settanta, non dei Cinquanta o dei Trenta. A parte questa anacronistica separazione, quelle medie erano un modello. L’italiano si insegnava benissimo. C’era la palestra della grammatica, accompagnata da quelli che si chiamavano semplicemente temi, senza i molti arzigogoli saggistici emersi più avanti. Si scriveva molto, sia a scuola, sia a casa e anche durante le vacanze. Quando Montale, nel 1975, vinse il premio Nobel, la professoressa ci impartì lo studio a memoria dei componimenti più famosi dell’illustre poeta. Ce li ricordiamo ancora oggi. Lo studio mnemonico era fondamentale ed è stato abbandonato frettolosamente. Sarebbe da recuperare. C’era ancora il latino, obbligatorio in seconda, facoltativo in terza. Che lusso.

L’insegnamento della storia era accompagnato da un’attenzione costante all’attualità. Ricordiamo un’accurata ricerca su Charta ’77, il movimento di dissidenti della Cecoslovacchia. Sapevamo tutto di Stalin, di Hitler, dei giovani tedeschi antinazisti della «Rosa bianca», del mondo diviso in due blocchi contrapposti e della guerra fredda, della crisi petrolifera. Vi ricordate l’austerity e le domeniche a piedi? Quelle vere, senza un’auto in circolazione? Insomma, non solo si studiava già il Novecento ma si conosceva bene la cronaca.

Ricordiamo un insegnamento di alto livello anche della matematica e delle scienze naturali. Non solo. Le materie considerate, a torto, minori, in realtà completavano l’istruzione in modo integrale. Educazione musicale, con Aldo Sala, definito ancora in questi giorni «una delle figure più autorevoli della didattica musicale a Bergamo», che ci regalò l’amore per la classica. Educazione artistica ci ha lasciato la passione per le mostre e i musei. Prima esposizione vista: «Aspetti del naturalismo lombardo. Da Gola a Morlotti», a Lecco. Il professore ci faceva disegnare osservando Klee e Miró. Le applicazioni tecniche ci insegnavano anche a saper usare una pinza e un cacciavite.

La scuola che mettiamo al secondo posto nella nostra formazione sono le elementari con il maestro Vincenzo Musitelli, l’altro nome che ci permettiamo di ricordare. Prima della guerra aveva frequentato il liceo scientifico. Al termine del conflitto, decise di tentare il concorso magistrale. Le sue vere passioni erano l’aritmetica e la ginnastica. Guai a chi non sapeva arrampicarsi sulla corda o sulla pertica. Non andava tanto per il sottile con i giudizi. Altro che «politicamente corretto». Del resto, si era formato negli anni del sabato fascista. All’epoca le persone come lui erano definite «nostalgici». Mussolini – ci ripeteva spesso – ha commesso solo un errore: allearsi con la Germania. Il giornale in classe? Ce lo leggeva lui tutti i giorni.La palestra non era solo quella fisica della spalliera. Era quella mentale dei pomeriggi di esercizi di analisi grammaticale e logica: la ginnastica che ha costruito la nostra struttura di pensiero.

Mettiamo al terzo posto il liceo Sarpi. Una scuola, a nostro giudizio, sopravvalutata, di cui non coltiviamo un buon ricordo, in particolare a livello di relazioni sociali, a quei tempi politicizzata da parte dei compagni di sinistra, classista da parte di quelli di destra. All’epoca i primi due anni di ginnasio erano ancora un frutto della filosofia neoidealista e anti-scientifica di Giovanni Gentile. C’era una sola insegnante che, in sostanza come una maestra, aveva diciotto ore, per italiano, latino, greco, storia, geografia, educazione civica. Restavano solo due ore di matematica e due di inglese, che, per di più, al liceo sparivano. Evidentemente la classe dirigente italiana era convinta di non aver bisogno di conoscere le lingue estere e che fossero gli stranieri a dover rendere omaggio a quella di Dante. Dal ginnasio ci sono rimasti la passione per la lettura, in particolare per la forma del racconto, e quattro degli autori che, ancora oggi, amiamo più di tutti, Pirandello, Buzzati, Kafka, Poe, ma anche l’allergia per i romanzi di più di 300 pagine, Thomas Mann escluso.

Non solo il ginnasio ma anche il liceo erano troppo sbilanciati sull’area detta «umanistica». In realtà, ci avrebbero dovuto insegnare che non c’era niente di più «umanistico» della medicina. Italiano, latino, greco, storia, filosofia. Pomeriggi interi passati sulle versioni dal latino e dal greco. Matematica, scienze e fisica restavano all’angolo. A differenza di oggi, poi, la maturità, in moltissimi casi, rischiava di compromettere cinque anni di duro lavoro e di buoni risultati in sole tre prove.I due scritti – italiano e la materia di indirizzo – si svolgevano il 1° e il 2 luglio. La prova orale, che rischiava di capitare nella calura degli ultimi giorni di luglio, si teneva con una materia su quattro scelta dal candidato e una seconda dalla commissione: spesso, però, per i più «fortunati», era ancora una desiderata dallo studente. Si noti, poi, che la commissione era costituita tutta da insegnanti esterni, tranne un membro interno, ovviamente sempre in minoranza.

All’ultimo posto della nostra gerarchia scolastica – consolatevi non laureati – mettiamo, decisamente, l’università. Ci siamo laureati in filosofia a Pavia, in una sede e in una facoltà letteralmente devastate dalle conseguenze peggiori del ’68, con piani di studio troppo liberi, esami esterni al proprio corso, nessuna assistenza didattica. L’abbandono totale a se stessi. Oggi c’è chi si iscrive a filosofia con l’obiettivo di essere assunto da un’azienda in qualità di direttore del personale. Auguri!

Un consiglio ai ragazzi che stanno finendo la maturità. Scegliete la facoltà guardandovi bene dentro, ma anche senza essere troppo idealisti. Il mondo è quello che è. Per esempio, se sentite una vocazione «umanistica», convincetevi che non c’è nessuna disciplina più «umanistica» della medicina, soprattutto se seguita da una specializzazione adeguata. Se, invece, ve la cavate in matematica e in fisica, non abbiate dubbi. Buttatevi su ingegneria, che, tra l’altro, offre una gran quantità di indirizzi. Proprio per tutti i gusti. Il Politecnico di Milano è il miglior ateneo italiano, al 156° posto, in crescita di 14 posizioni. La migliore università italiana in quella posizione rivela bene, comunque, come sia messo il nostro Paese nel mondo. Infatti, l’altro consiglio è andare, il più possibile, all’estero e imparare, bene come quella madre, almeno due lingue, meglio ancora tre. L’inglese è obbligatorio, perché ormai conoscere solo l’italiano è come – un tempo – parlare solo il dialetto. Si è già «stranieri» a Bolzano e a Nizza. Tra le lingue, sceglietevene anche una insolita, che pochi studiano. Quando valuteranno il vostro curriculum, sarà l’asso nella manica. In bocca al lupo!

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