Claudia, l’amore per il Mali
e il sogno realizzato
di creare una scuola

Sono passati più di 10 anni ma Claudia ricorda ancora quel piccolo biglietto abbandonato, tra i tanti, nel centro culturale dell’ambasciata egiziana a Roma. Lì seguiva un corso di arabo, nel tempo che le rimaneva tra gli studi di archeologia e le attività dell’associazione umanitaria di cui faceva parte. Aveva lasciato Bergamo da poco, dove viveva con la famiglia in città, proprio per terminare gli studi cominciati a Torino. L’archeologia era la sua passione, ma la volontà di sentirsi utile per qualcuno superò qualsiasi desiderio di carriera in quella direzione. Quel bigliettino raccontava di un tour attorno al Mediterraneo organizzato da un gruppo di ragazzi che volevano confezionare un documentario sulle differenze e le similitudini dei popoli che si affacciano sul mare.

Claudia si mise subito in contatto con loro per partecipare alla spedizione come consulente archeologa. Fu l’inizio di un amore chiamato Mali, che trasformò radicalmente la Claudia Berlendis che abitava in città nella Claudia Berlendis Kassogué che tuttora vive in una comunità maliana a 800 km dall’aeroporto più vicino. «In quel viaggio nel 2006 conobbi un’associazione umanitaria che portava aiuti alle popolazioni saheliane e rimasi colpita dal loro impegno, per questo dopo la spedizione mi unii a loro nella ricerca di fondi per sviluppare diversi progetti – racconta Claudia –. Mi appassionai sempre di più e progressivamente lasciai perdere gli scavi archeologici per accogliere la proposta del presidente dell’associazione: mi invitò a toccare con mano la realtà che stavamo cercando di aiutare. Era dicembre 2007, la mia prima volta in Mali».

Bastò poco alla bergamasca per innamorarsi di quella terra e delle persone che la abitano. Su tutti, Oumar, insegnante di francese in una piccola scuola nella savana che amava aiutare le persone in difficoltà. Lui era il referente dei progetti dell’associazione in Mali e dal 2009 è il marito di Claudia. «Con Oumar è stato amore a prima vista: ricordo ancora le emozioni del giorno del nostro matrimonio, alla presenza delle nostre famiglie… Due culture, due mondi, due religioni, due continenti si stavano incontrando per unirsi – rivela emozionata lei –. Il sogno di cambiare un po’ il mondo che ci circondava, soprattutto pensando alle nuove generazioni, era ed è il sogno che ci accomuna. E sentivo che il Mali era la terra che mi aveva accolto proprio per realizzare piccole grandi cose».

Da Roma Claudia si trasferì dunque a Douentza, una piccola cittadina a Nord con una sola strada asfaltata e nessun semaforo, pochissime macchine e molti carretti trainati da asini, nessun supermercato e poca disponibilità di cibo. «Lo sbalzo culturale fu difficile da superare, ma accanto a me avevo una famiglia maliana di grande ospitalità e comprensione che mi accolse come una figlia – specifica Claudia –. Per cercare di integrarmi velocemente iniziai a fare volontariato nel centro pedagogico che gestiva le scuole sul territorio creando una banca dati informatizzata di tutti i loro documenti e nello stesso tempo facevo da corrispondente per la ong con cui sia io che Oumar collaboravamo. Ci rendemmo conto però che il nostro matrimonio era considerato troppo scomodo per le persone che lavoravano in quell’organizzazione. Così aprimmo un nuovo capitolo della nostra vita».

Claudia e Oumar fondarono una piccola associazione umanitaria tutta loro con la quale riuscirono a costruire una scuola, a dare da mangiare a 80 bambini di strada e a realizzare diversi progetti grazie al supporto di amici preziosi. Nel 2012 però la vita dei due prese nuovamente un’altra direzione: Douentza fu presa d’assalto da jihadisti e ribelli tuareg i quali, ad aprile, cercarono di rapire Claudia. Oumar insistette per farla tornare in Italia e così fece. «Da lì iniziò un periodo bruttissimo: per alcuni anni io restai in Italia e lui in Mali, anche sotto la dominazione folle dei jihadisti e le bombe francesi lanciate contro i ribelli – racconta Claudia –. Feci più volte avanti e indietro da Bergamo per incontrarlo almeno qualche giorno fino alla fine del 2013, quando trovai lavoro per un’altra ong italiana che seguiva un progetto contro l’immigrazione clandestina».

Nel 2014 Claudia riuscì a portarsi a Nord del Mali, distribuendo razioni alimentari e beni di prima necessità alle popolazioni più colpite dalla crisi, poi dovette tornare nuovamente in Italia, dove si ritrovò a insegnare in un liceo privato col cuore da tutt’altra parte. «Sono riuscita a tornare a casa solo nel gennaio 2018 e da poco rappresento l’Agenzia italiana per la cooperazione dello sviluppo del distaccamento di Dakar, in Mali – specifica la bergamasca –. Poter fare finalmente la mia parte in un luogo così lontano da dove vivevo, per geografia e per tradizioni, è difficile, ma allo stesso tempo credo che io sia davvero portata per questo. La gioia di vivere che ogni giorno incontro qui, soprattutto tra i bambini, è unica e mi ripaga di tutte le fatiche». Claudia è felice di far ritorno a Bergamo per circa 20 giorni all’anno per riabbracciare la famiglia che con coraggio l’ha sempre supportata e per le passeggiate in Città Alta che hanno fatto da sfondo agli anni dell’adolescenza. «Della mia vita passata forse mi manca solo l’archeologia, ma senza quella probabilmente non avrei mai fatto il famoso viaggio scritto nel bigliettino e sposato il Mali. Il grazie va anche a lei».

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