A casa dopo 2 mesi e la terapia intensiva
«Ho temuto il peggio ma ce l’ho fatta»

La testimonianza dell’imprenditore Marco Minetti: «Non mi sono mai arreso, ringrazio i medici e la mia famiglia».

«Grande Marco, bentornato a casa!»: la prima cosa che ha visto Marco Minetti venerdì mattina, 64 giorni dopo l’inizio della sua odissea e dell’estenuante lotta al coronavirus, è il gigantesco striscione che gli amici della palestra gli avevano preparato fuori dalla sua abitazione in via Porta Dipinta. «Mi sono commosso, loro erano lì per rivedermi dopo oltre due mesi, è stato davvero un momento emozionante», svela Marco con la voce rotta dal pianto.

Imprenditore sessantatreenne, dirigente dell’azienda Minetti di Bergamo, lo sportivissimo Marco scopre di essere positivo al tampone fatto all’Humanitas Gavazzeni pochi giorni dopo i primi sintomi sospetti, quando la Bergamasca si apprestava a vivere il suo calvario: «L’11 marzo sono arrivato al pronto soccorso dell’ospedale Papa Giovanni XXIII e lì è cominciato l’incubo, mi mancava l’ossigeno e mi hanno subito fatto indossare un casco Cpap». L’aria finalmente arriva, ma cattivi pensieri inquietano la mente di Marco in quei cinque giorni interminabili: «È stato il momento più difficile dal punto di vista psicologico, era pesante tenere il casco per 24 ore al giorno, poi avevo paura, mi dicevo: “E se poi non funziona e non ci sono ulteriori cure, come farò a sopravvivere?”».

E infatti il 16 marzo la situazione peggiora, il casco non basta più, Marco viene intubato e trasferito d’urgenza in terapia intensiva, dove rimane per dieci giorni: «Di quel periodo non ricordo nulla, ero sedato e disorientato, paradossalmente quando mi sono svegliato è stata più dura».

Marco è un combattente, stringe i denti e ce la fa, la terapia subintensiva a cui è sottoposto nelle settimane seguenti lo prova molto dal punto di vista fisico, ma inizia a rendersi conto che il peggio è ormai alle spalle: «Ho sofferto molto quando sono stato stubato, poi io sono anemico per cui ero sottoposto a continui dolorosi prelievi e trasfusioni di sangue, mi muovevo solo con la carrozzina – ricorda - ma avevo capito che la vetta era superata e d’ora in poi sarebbe stato tutto in discesa». Per uno abituato a frequentare sempre la palestra, la ginnastica di recupero alla Clinica Quarenghi di San Pellegrino è una passeggiata, può tirare un sospiro di sollievo al telefono con la moglie: «Lei è stata il mio punto di riferimento, mi ha sostenuto in quei lunghi giorni e si è fatta forza grazie alle cure eccezionali che l’ospedale di Bergamo mi ha riservato, con il personale che la informava tutte le sere sulle mie condizioni».

Cristina Minetti è stata la voce di Marco per amici e parenti, ha rassicurato la figlia Federica e ha raggiunto l’America per tranquillizzare anche l’altro figlio, Michele: «Loro stanno bene, io ancora oggi non so dove ho contratto il virus ma in quel periodo ero un po’ stressato e avevo le difese immunitarie basse», ricorda. Gli amici della palestra non credono ai loro occhi quando lo vedono uscire dall’auto, sanno che quella di Marco è stata una vera e propria lotta alla sopravvivenza: «Solo il 18,5% delle persone entrate in quel reparto sono uscite vive, abbiamo sofferto tanto per lui e ora siamo contentissimi che sia tornato a casa!», esclama commosso l’amico e ingegnere Alessandro Pisoni. Marco si gode il ritorno graduale alla normalità, ma non dimenticherà mai l’esperienza vissuta. Il pensiero è costantemente rivolto a chi non ce l’ha fatta: «Mi sento molto vicino alla gente che ha sofferto e ha vissuto come me questo calvario – rivela – bisogna lottare per sopravvivere, io l’ho fatto con determinazione fin dal primo giorno e, nonostante qualche momento di sconforto totale, non mi sono mai arreso».

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