Cts, i verbali: zona rossa chiesta il 3 marzo
Ma sette giorni prima: «Non necessaria»

Coronavirus, pubblicati tutti i resoconti delle riunioni del Comitato tecnico scientifico. La rivelazione sulla seduta del 26 febbraio. Tre giorni prima i fatti del Pronto soccorso di Alzano. Subito la preoccupazione sulle scuole.

È il 26 febbraio, un mercoledì. La domenica prima il Pronto soccorso dell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo viene chiuso e riaperto nel giro di poche ore e la Bergamasca fa la conoscenza con quello che fino a qualche giorno prima sembrava una sindrome cinese: il coronavirus. Lunedì 24, la prima vittima. Il Cts, Comitato tecnico scientifico, sigla che diventerà tristemente familiare nelle settimane a venire, discute sull’opportunità «di delimitare ai fini della quarantena ulteriori aree della Lombardia in aggiunta ai 10 Comuni identificati il 21 febbraio». Quelli intorno a Codogno. Siamo alla riunione numero 9 e c’è anche il ministro della Salute, Roberto Speranza. Codogno è stato oggetto della numero 7, il 21 febbraio: la situazione è tutta in divenire e il «caso 0 a livello Paese» viene definito «un focolaio contenuto», sufficiente però «ad adottare misure» come la «limitazione della mobilità delle persone».

Siano comunque ancora in presenza di «casi sporadici in via di conferma» si legge nei verbali pubblicati ieri dalla Protezione civile. Con qualche omissis e allegati mancanti. Il 26 febbraio il Cts «ritiene non ci siano le condizioni per l’estensione delle restrizioni in nuove aree, né che siano necessarie ulteriori misure restrittive» al di fuori di quelle adottate a Codogno e dintorni. Forse perché i casi positivi presi in esame sono quelli «di italiani che provengono dalla Lombardia e che al momento si trovano in Paesi esteri dove è stata riscontrata la loro positività al coronavirus». Eppure negli stessi giorni succede quel che succede al Pesenti-Fenaroli, ma nel verbale non si fa riferimento alla Val Seriana: si parla genericamente di «ulteriori aree» e non viene nemmeno indicato da chi provenga la richiesta. Ma appare francamente difficile pensare che il Cts non sapesse di Alzano.

Ad ogni modo, il verbale numero 7 del 22 febbraio, indica tra le misure fortemente raccomandate (purché tempestiva) «l’isolamento per la riduzione della circolazione del virus fuori dalle aree interessate» oltre al «contenimento all’interno dell’area» deciso per Codogno. L’occhio è ancora sul Lodigiano, ma nel frattempo i morti nella Bergamasca sono già 3.

Una navigazione a vista

La verità è che sfogliando i 95 verbali pubblicati ieri emerge la sensazione di una «navigazione a vista» almeno iniziale. Giustificata dal fatto che del Covid-19 si sapeva poco o nulla e che le prime mosse sono tutte incentrate sul versante, come dire, cinese. Nella prima riunione del 7 febbraio le indicazioni riguardano le misure per gli studenti di ritorno dall’Oriente (c’era il capodanno cinese) nelle classi, in quelle successive si discute molto sul caso della nave «Diamond Princess» e degli italiani a bordo.

Ma già il 2 di marzo si fa riferimento all’esistenza di un «Piano di organizzazione in caso di epidemia» e il Cts si dice d’accordo «di adottarlo nella versione finale». Siamo quindi di fronte ad un «work in progress» e il Comitato chiede di «mantenerne riservato il contenuto». In parole povere, segreto.

C’è sì la scienza, ma anche tanta (legittima, naturale) incertezza di fronte ad una situazione in continuo e rapido peggioramento e della quale si fatica a tratti a capire la portata. Il 4 marzo il Cts, per dire, appare perplesso sulla chiusura delle scuole e una settimana dopo lo sarà sull’utilizzo delle mascherine nei luoghi di lavoro. Ma è anche vero che «la quantità dei dati è insufficiente per definire un preciso profilo edipemiologico dell’epidemia» rileva il Cts già il 24 febbraio. Da qui la richiesta «di inviare epidemiologi nelle aree con casi confermati per analisi più accurate»

Quella prima settimana di marzo

Il 3 marzo Alzano e Nembro piombano sul tavolo in modo inequivocabile. È il verbale numero 16, secretato in un primo momento. I dati dei due paesi arrivano all’Istituto superiore della sanità e da qui al Cts. L’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera e l’allora direttore generale Luigi Cajazzo confermano i «dati relativi all’aumento» dei contagi. Fino a quel momento sono oltre 20 casi» per paese» e quindi si registra un indice superiore ad 1 «che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione». Il Cts stavolta è drastico, chiaro: propone di «adottare le opportune misure restrittive già adottate nella zona rossa. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». Come invece è finita è purtroppo storia. Tragica.

Il premier Giuseppe Conte dirà di aver ricevuto quel verbale solo 2 giorni dopo. Ma il 7 marzo la situazione precipita. Il Cts registra «una lieve flessione nell’incremento dei casi nelle zone rosse a cui corrisponde contemporaneamente un aumento dell’incidenza in aree precedentemente non rientranti nelle zone rosse medesime». Da qui la richiesta di applicare misure più rigide in tutta la Lombardia e in alcune province emiliane, venete e piemontesi.

Il 9 marzo, il verbale numero 22 rivela come il Cts chieda di rivedere le stime del «Piano in caso di epidemia». Al rialzo, molto probabilmente. La sera stessa Conte «sigilla» il Paese intero. Il giorno dopo il Cts valuta «coerenti le misure adottate». Di più: «Nei giorni a venire potrebbero configurarsi situazioni locali in cui sia opportuno ulteriore misure di inasprimento delle misure di contenimento».

© RIPRODUZIONE RISERVATA