Sviluppo sostenibile, opportunità enormi per le imprese europee

L’INTERVISTA. Il Green Deal dell’Unione europea, proposto nel 2019 dall’attuale Commissione europea, presieduta da Ursula von der Leyen, ha posto lo sviluppo sostenibile al centro di tutte le politiche.

Ora, però, il Green Deal, finalizzato alla decarbonizzazione entro il 2050, rischia di diventare un capro espiatorio di chi vive momenti di difficoltà economica e sociale, come mostrano, in tutta Europa, le proteste degli agricoltori, nonostante essi siano i più colpiti, tra siccità e alluvioni, dagli effetti dei cambiamenti climatici indotti dalle attività umane.

Il Green Deal dell’Unione europea, proposto nel 2019 dall’attuale Commissione europea, presieduta da Ursula von der Leyen, ha posto lo sviluppo sostenibile al centro di tutte le politiche. Ora, però, il Green Deal, finalizzato alla decarbonizzazione entro il 2050, rischia di diventare un capro espiatorio di chi vive momenti di difficoltà economica e sociale, come mostrano, in tutta Europa, le proteste degli agricoltori, nonostante essi siano i più colpiti, tra siccità e alluvioni, dagli effetti dei cambiamenti climatici indotti dalle attività umane.

Nello stesso tempo sembra che le politiche europee diventino contraddittorie: da un lato, un passo indietro sulla riduzione nell’uso dei pesticidi; dall’altro, il rilancio delle ambizioni di ridurre le emissioni nette di gas serra nell’Unione europea del 90 per cento entro il 2040. Del futuro delle politiche ambientali, tra le proteste degli agricoltori e le preoccupazioni del mondo industriale per i costi della transizione ecologica, parliamo con un autorevole esperto, l’economista Enrico Giovannini.

Il Green Deal è il più grande programma di transizione ecologica equa, non è una scelta ideologica

Nessuno ha la sfera di cristallo ma, a suo giudizio, possono prevalere i passi indietro oppure le ambizioni?

«Il Green Deal è il più grande programma di transizione ecologica “giusta” mai lanciato nel mondo. Sottolineo questo aspetto, perché l’obiettivo non è solo quello, a lungo termine, di decarbonizzare l’Europa entro il 2050, un impegno successivamente assunto da molti altri Paesi, per esempio Giappone e Corea del Sud, e sancito come obiettivo comune dalla Cop 28 (la 28.a Conferenza dell’Onu sul clima a Dubai, ndr). Peraltro, il Green Deal europeo sta procedendo: in questi quattro anni è stato adottato un insieme veramente straordinario di direttive e regolamenti non solo sulle questioni ambientali ma anche su quelle sociali, che, però, non sono di competenza dell’Unione europea, ed è qui il problema. Infatti, mentre gli obiettivi ambientali si definiscono a livello europeo, le politiche sociali per compensare chi paga maggiormente i costi della transizione sono nazionali. Questa asimmetria spiega da un lato le difficoltà, dall’altro il gioco puramente mediatico-politico cui si assiste in molti Paesi europei. Quanto ha scatenato, per esempio, le proteste dei trattori in Italia non è stato il Green Deal, ma il taglio dell’esenzione dell’Irpef per gli agricoltori, una decisione del governo, il quale ha poi deciso di tornare indietro rispristinando le agevolazioni fiscali, a conferma che l’Unione europea non c’entrava nulla. Però non c’è dubbio che, man mano si avanza nella transizione, ci si renda conto anche dei suoi costi: ma ogni volta che valutiamo costi e benefici del Green Deal dovremmo andare oltre la sfera puramente economica. Ricordiamo sempre che in Europa abbiamo 300mila morti premature all’anno per malattie legate all’inquinamento, di cui 52mila in Italia. Sono persone che nessuno difende, ma la cui tutela è al centro del Green Deal».

Ma le decisioni per compensare i costi sono nazionali. Spostare i sussidi dannosi sulle politiche lungimiranti

Una buona parte di quelle morti premature in Italia avviene in Pianura Padana.

«Tra le aree più inquinate d’Europa. D’altra parte, in relazione al Green Deal, emergono molti problemi legati anche agli errori commessi nel passato a livello europeo e nazionale. Uno per tutti: le politiche industriali europee sono state molto “difensive”, perché sembrava che la competizione da favorire fosse quella sul mercato interno, mentre, ovviamente, l’Unione deve essere competitiva a livello globale: solo recentemente le regole europee sono state modificate per consentire, per esempio, ai Paesi di aiutare i settori e le imprese più interessati dalla transizione».

In Italia 52mila morti all’anno per l’inquinamento. Sono persone che nessuno difende, ma la cui tutela è al centro del Green Deal

Quali sono i risultati principali già raggiunti dal Green Deal e gli obiettivi rilevanti che, invece, sono stati rinviati?

«Il Green Deal ha stimolato moltissime imprese e interi settori ad affrontare seriamente la transizione, investendo risorse consistenti. Peraltro, le imprese che hanno compiuto la scelta verso la sostenibilità dimostrano come sia conveniente anche sul piano economico. Una grande impresa italiana che ha intrapreso la via dell’acciaio verde ha ridotto drasticamente la quantità di emissioni per tonnellata e ora non sa più, come si dice a Roma, “a chi dare i resti”, perché c’è una forte richiesta per quel tipo di prodotto. Il recente rapporto Sace, come i dati dell’Istat, dimostrano che le imprese impegnate nella transizione ecologica e nella digitalizzazione guadagnano produttività e quote di mercato, creano più occupazione e anche profitti. Quelle rimaste indietro, invece, arrancano».

Le imprese che hanno compiuto la scelta verso la sostenibilità dimostrano come sia conveniente anche sul piano economico

Queste ultime sono anche quelle che creano i maggiori problemi.

«Ovviamente. Ma bisogna saper distinguere tra costi e investimenti. Quell’impresa dell’acciaio verde ha dovuto fare investimenti molto elevati, i quali, per definizione, servono per ottenere, in un’ottica di medio termine, ricavi più alti. Ricordiamo sempre che il Green Deal non è un’operazione ambientalista, ma parte da un presupposto: il mondo per salvarsi deve andare verso sistemi di produzione, di gestione, di mobilità più sostenibili, altrimenti non c’è futuro. Se le imprese europee si pongono sulla frontiera delle nuove tecnologie, avranno enormi opportunità per vendere i propri prodotti e servizi a tutto il mondo. Questa è l’idea di partenza. Alla base del Green Deal, cioè, c’è un ragionamento economico e sociale oltre che ambientale. E invece viene spesso presentato come se fosse il risultato di un’ideologia ambientalista, che veramente non so dove stia di casa in Europa. Un esempio banale. Le rese dei terreni agricoli europei sono in picchiata perché sono state ridotte dall’eccessivo uso di fertilizzanti e dalla sovrapproduzione: metterli a riposo a rotazione è nell’interesse di medio e lungo termine degli agricoltori stessi. Non a caso questo obbligo è compensato sul piano finanziario dall’Europa: una scelta, appunto, lungimirante, non ambientalista».

Il Green Deal parte da un presupposto: il mondo per salvarsi deve andare verso la sostenibilità, altrimenti non c’è futuro

Servirebbe spiegare bene i motivi delle scelte invece di cavalcare le proteste.

«L’idea che la transizione ecologica dovesse essere giusta è stata declinata, sul piano della comunicazione, dopo il lancio del Green Deal, ed è apparsa quasi una “toppa”, mentre fin dall’inizio era alla base della strategia. L’asimmetria tra le competenze ambientali e quelle sociali, queste ultime tenute strette dagli Stati, spiega il perché di molti problemi. Un esempio per tutti. L’Italia, prima della crisi energetica legata al conflitto in Ucraina, aveva circa 30 miliardi di sussidi dannosi per l’ambiente. Se si trasformassero in sussidi a favore dell’ambiente, quanto sostegno alle imprese si potrebbe offrire? L’ASviS lo propone da molti anni. L’attuale governo, con un coraggio non avuto dai precedenti, ha inserito nella revisione del Pnrr una riforma che prevede, entro il 2026, di tagliare di alcuni miliardi i sussidi dannosi per l’ambiente. Si tratta di un impegno da onorare per avere i soldi del Pnrr, quindi veramente molto stringente. Una notizia purtroppo messa parte dai media italiani, ma davvero molto importante».

Nella revisione del Pnrr l’attuale governo ha previsto, entro il 2026, di tagliare di alcuni miliardi i sussidi dannosi per l’ambiente

Lei è stato promotore dell’introduzione nella Costituzione della tutela dell’ambiente, avvenuta due anni fa. Vede ricadute concrete?

«I Tar cominciano a citare quella riforma costituzionale tra le motivazioni delle loro sentenze. Un ricorso contro un’installazione di impianti fotovoltaici, per esempio, è stato respinto perché dopo la modifica della Costituzione l’ambiente conta quanto il paesaggio, esattamente ciò che abbiamo sostenuto per anni: per la salvaguardia delle colline senesi, ad esempio, servono anche le scelte per contenere l’aumento della temperatura. La modifica costituzionale sta poi entrando in alcuni processi decisionali di natura politica, anche se troppo lentamente».

I Tar cominciano a citare la tutela dell’ambiente introdotta due anni fa nella Costituzione tra le motivazioni delle loro sentenze

Nel libro «I ministri tecnici non esistono» ripercorre la sua esperienza, nel governo Draghi, di ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, il nuovo nome da lei scelto per il dicastero, ora tornato al precedente di Infrastrutture e Trasporti. Quale giudica il principale risultato della sua esperienza governativa? E il rimpianto maggiore?

«Da un lato la soddisfazione di essere riuscito a mettere in pratica quanto avevo proposto dall’ASviS in termini di investimenti per le infrastrutture idriche, per la mobilità sostenibile, per la sicurezza stradale e così via. Tra l’altro, al di là dell’avere avuto l’opportunità di allocare 104 miliardi di euro per tutti questi aspetti, c’è anche la soddisfazione di aver sviluppato un modello per le infrastrutture sostenibili, travasato poi nel Codice dei contratti: infatti, ogni nuova infrastruttura deve ora essere progettata tenendo conto di tutta una serie di elementi non solo ambientali ma anche sociali. I rimpianti sono diversi: tra questi il blocco, dopo la crisi del governo Draghi, dell’iter della legge per la rigenerazione urbana. Bergamo, che ha il progetto Porta Sud, sa bene di che cosa stiamo parlando. Il Senato ha ripreso l’esame di un disegno di legge sulla rigenerazione urbana quale alternativa strategica al consumo di suolo: vedremo che cosa ne uscirà. C’è un po’ di dispiacere, obiettivamente, anche perché rispetto ad alcune spinte per gli autobus e per i treni nel senso della mobilità sostenibile a volte i messaggi culturali espressi dal governo in carica sono diversi, anche se mi fa molto piacere che, nei fatti, gli investimenti in quella direzione siano continuati».

Sulla mobilità sostenibile a volte i messaggi culturali espressi dal governo in carica sono diversi, ma gli investimenti continuano

Il Pil e la crescita restano i parametri dominanti malgrado le proposte di integrarli nelle statistiche. Lei ha proposto il Bes, Benessere equo e sostenibile.

«In Italia gli indicatori del Bes sono stati introdotti dalla riforma della legge di bilancio del 2016. I governi sono tenuti a un rapporto annuale per mostrare gli impatti della legge di bilancio su dodici indicatori, che riguardano la disuguaglianza, la speranza di vita, l’obesità, la sicurezza personale, le emissioni di anidride carbonica e così via. Peccato che il rapporto non abbia una grande risonanza giornalistica e soprattutto non entri nel dibattito pubblico, benché sia un documento molto importante per giudicare le politiche praticate, non solo annunciate. Quello dell’anno scorso, per esempio, mostrava che la legge di bilancio non avrebbe prodotto alcun effetto positivo, per il triennio seguente, in termini di riduzione delle disuguaglianze di reddito e di taglio delle emissioni di anidride carbonica. Dal 2016, insomma, molte informazioni sono disponibili: la politica dovrebbe usarle di più».

Sugli indicatori del Bes, Benessere equo e sostenibile, la legge di bilancio dell’anno scorso non produce effetti positivi

Alla fine dell’anno scorso il governo ha pubblicato il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici. Una buona notizia: era fermo nei cassetti da nove anni. Ma lei ha osservato che non si sa come saranno stanziati i fondi e identificate le persone in grado di realizzare il Piano.

«Sì, perché il Piano non resti solo sulla carta mancano la governance e i fondi. Questi ultimi, in realtà, ci sono, almeno in parte. Penso, per esempio, a quelli stanziati, quand’ero ministro, per le infrastrutture idriche. Ma sono dispersi e manca una visione d’insieme. Il mio suggerimento è che il governo compia, prima di tutto, il censimento dei vari fondi già stanziati, quando sarà istituito l’annunciato Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, che avrà funzioni di coordinamento tra i livelli amministrativi del territorio e tra i vari settori. I fondi che ci sono possono essere un buon inizio, ma è evidente che sono insufficienti e la loro frammentazione impedisce all’opinione pubblica di valutare la loro adeguatezza e quindi di spingere per orientare le scelte in questa direzione».

Perché il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici non resti solo sulla carta mancano la governance e i fondi

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