Basta guerre, quel grido nel deserto
di Francesco

È già la seconda volta questo mese che lo chiede. Smettetela di spararvi addosso, cercate la pace o almeno una tregua. Papa Francesco sollecita ancora il cessate-il-fuoco globale immediato dove si continua a combattere in guerre dimenticate per permettere di aiutare in sicurezza le popolazioni colpite dal Covid-19. Nei giorni in cui i contagi vanno fuori controllo il pensiero di Bergoglio torna a chi insieme alla pandemia deve affrontare le sofferenze
di un conflitto armato. Lo aveva già detto il 5 luglio e adesso lo ripete. Due settimane fa aveva dato pieno sostegno alla Risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dopo l’appello ormai quattro mesi fa del Segretario generale Antonio Guterres per una tregua stabile in tutte le aree dove si combatte. Ma le tregue sono troppo fragili e i conflitti «a bassa intensità» s’infiammano di nuovo.

È il caso del Caucaso, una delle regioni più inquiete e instabili del mondo, dove da dieci giorni, nel silenzio più assoluto dei grandi media, azeri e armeni hanno ricominciato a spararsi addosso. Solo il Papa ieri mattina ha colto la gravità della ripresa di un confronto che da decenni contrappone Baku e Erevan per il controllo della regione strategica del Nagorno-Karabakh. I morti sono una ventina e aumentano gli sfollati interni. È l’ultima puntata di un conflitto di cui si è persa la memoria, destino comune alla numerose tensioni del Caucaso, «frozen conflict», conflitti congelati, ma mai risolti, risultato degli interessi competitivi e sempre contrapposti delle geopolitiche euroasiatiche. Bergoglio aveva chiesto una soluzione definitiva e dialogo stabile nei suoi viaggi a Baku e a Erevan e domenica 19 luglio ha sottolineato che non c’è altra alternativa, sottolineando tuttavia anche le colpe della comunità internazionale.

La Santa Sede è preoccupata perché per la prima volta gli scontri non si sono concentrati nella zona di confine contesa, ma le bombe azere, che avrebbero sparato per prime il 12 luglio, hanno colpito il territorio armeno, distruggendo case in alcuni villaggi e, secondo qualche agenzia internazionale, anche una fabbrica che produce mascherine anti-Covid. Si temeva una ripresa del conflitto. Il presidente azero Ilham Aliyev, padre padrone della Repubblica, in difficoltà interne a causa di problemi economici e della pandemia, il 7 luglio aveva ricordato che la situazione sul terreno in Nagorno-Karabakh «non è normale» e aveva denunciato che i negoziati non hanno portato a nessun passo in avanti. Le piazze di Baku si sono subito riempite di manifestanti a favore della guerra, poi dispersi blandamente dalla polizia, ma che hanno avuto il tempo di occupare per alcune ore il Parlamento. Un conflitto è utile anche agli armeni alle prese con gli stessi problemi economici e sanitari per distrarre i cittadini.

Dopo la guerra che ha opposto Armenia e Azerbaijan tra il 1988 e il 1994 con 40 mila morti, il più antico conflitto ex sovietico, nulla si è davvero pacificato. Da allora ogni tanto qualcuno spara e l’altro risponde e il timore di escalation è dietro l’angolo nell’assoluta indifferenza della Comunità internazionale. Nel 1992 venne creato il Gruppo di Minsk (co-presidenti francesi, russi, americani) per trattare la pace. Ma dopo quasi vent’anni non è stato raggiunto alcun risultato. Così in piena pandemia la guerra tra azeri e armeni è la prima a riprendere intensità, mentre gli altri conflitti più o meno dimenticati, dalla Siria allo Yemen alla Libia, dal Sahel al Ciad al Mali, alle tensioni tra India, Cina e Pakistan lungo i confini precari tracciati sul tetto del mondo, continuano a mietere vittime di cui solo il Papa si ricorda.

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