«Bibi» vince ancora
Usa e Hamas sponsor

Di poco ma ce l’hanno fatta. I grandi sponsor della campagna elettorale di Benjamin «Bibi» Netanyahu, Donald Trump e Hamas, sono riusciti a regalargli il quinto mandato (il quarto consecutivo) per governare Israele per conto del Likud. Certo, non sono riusciti a impedire che lo sfidante Binyamin «Benny» Gantz (un ex capo di stato maggiore) e il suo «Bianco e Blu» raccogliessero lo stesso numero di seggi, ovvero 30 sui 120 della Knesset, miglior risultato di sempre per un partito all’esordio.

Ma la promessa di riconoscere come territorio israeliano il Golan occupato nel 1967 (Trump) e quei missili partiti da Gaza proprio alla vigilia delle elezioni (Hamas) hanno aiutato il premier a tenere nonostante gli scandali e regalato ai partiti della destra laica e religiosa (Kulanu e l’Unione dei partiti di destra da un lato, Shas e Giudaismo Unito nella Torah dall’altro) suoi alleati i seggi decisivi per superare quota 61 e ottenere la maggioranza in Parlamento.

Gantz, in campagna elettorale, aveva detto che un eventuale governo Netanyahu sarebbe comunque durato solo otto mesi, cioè fino al momento in cui sul capo del premier fossero piombati i processi per le tre accuse di frode e corruzione. Ma intanto ha perso, e Netanyahu si appresta a battere ogni record di longevità politica e permanenza al potere.

Molti ora scrivono che, con questo esito nella sfida tra Bibi e Benny, l’asse politico di Israele si è spostato a destra. Curioso modo di affrontare il problema di un Paese che rifiuta di darsi un confine perché da decenni occupa terre altrui, che ha scelto di discriminare per legge (quella detta «Israele Stato-nazione degli ebrei», approvata nel luglio scorso) il 20% dei propri cittadini che nella vita quotidiana erano discriminati già prima e dove la grande maggioranza dei politici, in modo più o meno esplicito, auspica la cacciata dei palestinesi. Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Netanyahu ha promesso di annettere a Israele metà della Cisgiordania. E Gantz, che pure sarebbe disponibile a limitate concessioni territoriali ai palestinesi, ha ribattuto che si sarebbe dovuto farlo già da tempo.

In questo Israele che ha rinnegato le proprie radici laiche, e dove l’integralismo religioso trova sempre più spazio (fino, appunto, a risultare decisivo per la nascita e la vita dei governi), la sinistra non esiste più. Come non esiste più la questione palestinese. Queste elezioni sono arrivate in anticipo perché Israel Beytenu, il partito del falco Avigdor Lieberman, aveva mollato la coalizione guidata da Netanyahu perché troppo «molle» nel gestire il confronto con Hamas e la Striscia di Gaza. Dove due milioni di palestinesi, secondo l’Onu, campano in condizioni che entro il 2020 diventeranno «invivibili».

Per Israele, ormai, i palestinesi sono una mera questione di polizia. Nessun futuro per loro in questo spazio geografico, tantomeno uno Stato. Prendersi la Cisgiordania e prendersi il Golan all’ombra della protezione politica e finanziaria Usa, ecco il futuro prossimo. Lo Stato ebraico del resto può permetterselo. Anche da solo risulta l’ottava potenza militare del mondo, un gigante circondato da nani. Adesso, comunque, bisogna guardare più all’Iran che alla Palestina. La riconferma di Netanyahu, spinta dagli annunci di Trump sul destino del Golan e sull’inserimento dei pasdaran iraniani nella lista nera dei movimenti terroristici, è una campana che manda rintocchi minacciosi. L’America, sconfitta in Siria, ha bisogno di una rivincita. E i suoi grandi amici del Medio Oriente, Israele punto e Arabia Saudita, non vedono l’ora.

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