Burocrazia
sempre zavorra

Tra i tanti nervi scoperti della nostra amministrazione pubblica, la pandemia ha fatto emergere in modo definitivo la farraginosità di molti iter burocratici, che hanno causato incomprensibili ritardi nell’attuazione dei decreti del governo. Quanto accaduto e la consapevolezza dei tanti fondi strutturali non spesi o spesi male hanno certamente contribuito alla decisione del premier Conte di costituire un’apposita «task-force» per la gestione dei 209 miliardi d’investimenti previsti dal Next Generation Ue. Dovrebbe essere composta da centinaia di tecnici, coordinati da sei manager (probabilmente provenienti da grandi imprese pubbliche), che risponderebbero direttamente del loro operato a due ministri e al Presidente del Consiglio.

Su tale soluzione si è sviluppato un acceso dibattito animato dai partiti dell’opposizione - ma anche della maggioranza «renziana» - i quali ritengono che l’attività di una struttura di questo tipo si svolgerebbe in contrasto con i principi alla base di uno Stato democratico. Le perplessità riguarderebbero il fatto che: il coinvolgimento del consiglio dei ministri sarebbe solo parziale; il Parlamento non avrebbe alcun ruolo nella definizione degli interventi né la possibilità di controllarne l’effettuazione; si concentrerebbero troppi poteri in capo al Presidente del Consiglio. Alla base della scelta del governo c’è anche la consapevolezza della scarsa affidabilità delle strutture dei vari ministeri rispetto a un programma d’investimenti di così grandi dimensioni, che deve essere portato a termine in soli 6 anni. Del resto, proprio in seguito a carenze della pubblica amministrazione, sia centrale che periferica, si è spesso determinata la necessità di nominare commissari (ve ne sono oggi circa 10 mila) che, pur comportando una consistente aggiunta di costi, solo in pochi casi hanno raggiunto gli obiettivi assegnati. La nuova tax-force richiederà, quindi, scelte ponderate e adeguati monitoraggi e controlli.

Sbagliare non è più possibile e accettabile per un Paese che troppo spesso si è impantanato nelle acque torbide di una persistente deriva burocratica. Basti pensare che nelle sue Considerazioni finali del 1973, l’allora Governatore della Banca d’Italia Guido Carli usò l’espressione «lacci e lacciuoli» per sottolineare gli ostacoli burocratici che si frapponevano al raggiungimento di un adeguato sviluppo economico del Paese. Lo stesso Carli aveva già dovuto confrontarsi con questo problema subito dopo la sua nomina a Governatore nel 1960, superandolo efficacemente con la predisposizione di concorsi annuali selettivi per titoli ed esami. Una scelta lungimirante che garantì al nostro paese la formazione di una nuova classe dirigente dinamica, competente e «indipendente». Dal 1976 Guido Carli profuse il suo impegno in altri numerosi incarichi nei quali ebbe conferma di quanto i «lacci e i lacciuoli» fossero diffusi e, soprattutto, di quanto si facesse ben poco per eliminarli. Come ebbe a dichiarare a Maastricht nel 1992, il suo impegno quale ministro del Tesoro, perché l’Italia riuscisse ad entrare nella Comunità europea, nasceva anche dalla convinzione della «nostra incapacità di darci regole autonome ed efficaci di comportamento».

Negli anni successivi l’Ue è riuscita a dotarsi di un’eccellente burocrazia con l’assunzione, attraverso accurate selezioni, di giovani molto capaci ai quali è stata assicurata una carriera basata essenzialmente sul merito. I tanti nostri governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni non hanno fatto altrettanto. Sarebbe davvero ora che l’accesa e talvolta stucchevole contrapposizione cui oggi assistiamo, tra chi propone soluzioni straordinarie per il migliore utilizzo dei fondi europei e chi richiama l’esigenza di non trascurare i principi essenziali di uno Stato democratico, possa risolversi in un impegno comune, per una volta non speculativo, verso un radicale rinnovamento del nostro assetto burocratico centrale e periferico.

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