Dopo le urne, spazzati via
gli annunci di vittoria

Mai chieder all’oste se il vino è buono. Mai chiedere ai partiti se il loro risultato elettorale è buono. I bilanci redatti a caldo sono sempre viziati dalla fretta e dall’interesse di bottega. La fretta è nemica della serietà, l’interesse della verità. Tocca alla realtà, che notoriamente ha la testa più dura delle parole, rimettere le cose a posto. Nell’ultima verifica elettorale c’è stata una complicazione che ha ulteriormente contribuito a intorbidire l’analisi: il tratto marcatamente personalistico e leaderistico della sfida, centrata sull’elezione diretta del governatore regionale. Ciò ha messo in ombra il ruolo, il peso specifico, l’identità stessa di ogni partito, lasciando piena licenza a tutti di cantare vittoria, senza troppi riguardi ai (in genere) miserevoli consensi raccolti da ciascuno. Il carattere di sfida all’O.K. Corral tra centrodestra e centrosinistra, assunto dalla prova elettorale, ha polarizzato lo scontro e richiamato l’attenzione sul numero delle Regioni conquistate, e non sul merito delle questioni che alimentano forti divisioni non solo tra gli schieramenti, ma anche al loro interno.

La gioia esplosa nel campo rosso-giallo per lo scampato pericolo di perdere l’intera posta in gioco (sei Regioni su sei) non ha, tuttavia, oscurato il pesante passo falso compiuto: ossia la mancata presentazione di liste unitarie da parte della maggioranza alla sua prima seria verifica elettorale. Prova, questa, se ce n’era bisogno, della difficoltà congenita dei due soci di governo a saldarsi in un’alleanza organica, cui ha fatto da controprova il flop subìto dall’unico candidato a governatore regionale sostenuto unitariamente dai due partiti: Ferruccio Sansa in Liguria. Conferma della regola che in politica la somma di uno più uno non fa due, ma uno e mezzo.

Sul fronte opposto, la soddisfazione esibita per aver strappato una Regione alla sinistra, portando in tal mondo il totale delle Regioni sotto il controllo del centrodestra a 15 su 20, non avrebbe dovuto far passare sotto silenzio il tramonto, certificato dal pesante arretramento elettorale della Lega, del sovranismo di conio antieuropeo. Con le implicazioni che ne derivano per gli equilibri interni della coalizione, a partire dallo smarcamento, non proclamato ma messo in atto, sia da Berlusconi che dalla Meloni. Il primo, sempre più propenso a collaborare col governo, la seconda sempre meno sovranista e sempre più europeista, tanto da assumere la presidenza dei conservatori nel Parlamento di Strasburgo. Insomma, i due schieramenti sono divisi, eppur si dichiarano soddisfatti. Beati loro.

La realtà – si diceva – ha però la testa dura e alla fine si impone. Non è passata una settimana dai festeggiamenti per la buona tenuta elettorale della maggioranza di governo e subito questa ha dovuto prendere atto della sua perdurante cattiva tenuta politica. Una dopo l’altra, si sono ripresentate a Conte tutte le questioni aperte: dall’Alitalia ad Autostrade, dalla riforma elettorale ai decreti sicurezza, dalla riforma fiscale alla scuola. Per non dire delle due grandi questioni spiccatamente politiche che mettono a repentaglio la tenuta della coalizione. Come può reggere un governo quando il partito di maggioranza relativa (il M5s) si ritrova nel pieno di una bufera: diviso, quasi lacerato dallo scontro dei governatoristi alla Di Maio e dei «duri e puri» alla Di Battista? Come può la coalizione rosso-gialla intestarsi un nuovo Risorgimento economico (parola di Conte) quando non ha praticamente rappresentanza nel Nord, l’area più produttiva del Paese?

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