Ex ilva, la storia
e le false verità

Delle due sentenze ex Ilva uscite in contemporanea, quella più urgente (no alla chiusura dell’Alto forno 2), ha oscurato l’altra, in sé clamorosa, perché addirittura spiega che la famiglia Riva aveva molti meriti nella gestione del più grande complesso siderurgico d’Europa! Eppure, i Riva sono stati letteralmente espropriati, descritti come bancarottieri e moralmente indegni. La (provvisoria?) verità giudiziaria, che naturalmente non piace a molti, è venuta a galla solo perché uno dei fratelli Riva ha resistito in giudizio.

Il capofamiglia, nel frattempo, è deceduto, gli altri hanno patteggiato, ma secondo Svimez ben 23 miliardi sono andati in fumo. Entrambe le sentenze sono da leggere e meditare. Non sono oro, anzi acciaio colato, e ricordiamo che per farsi dare i soldi espropriati dei Riva lo Stato ha dovuto andare in Svizzera, ma è lecito dubitare che ci sia ora altrettanta attenzione per una magistratura giudicante che ha lavorato studiando dossier e raccogliendo perizie. Nelle due sentenze, c’è tutta la sostanza vera di un dibattito propinato per decenni a senso unico suscitando scandalo e indignazione: riguarda infatti il rapporto tra lavoro e sicurezza e quello tra Stato e mercato nella gestione di attività strategiche.

Della prima questione si occupa la sentenza del riesame, che ha ribaltato l’ordinanza che avrebbe trasformato da domani un Altoforno in un rottame, spedendo 3.500 persone in cassa integrazione straordinaria e compromettendo le già flebili trattative con Mittal. La questione era delicatissima, trattandosi di responsabilità di mancata sicurezza alla base di una morte sul lavoro nel 2015. Il giudice ha applicato la categoria della ragionevolezza, e non quella dell’emotività di piazza. Secondo il giudice, è prioritaria la salvaguardia della sicurezza, e il rischio va ridotto al massimo, ma non fino al punto di negare l’esistenza stessa dell’impresa. I periti hanno collocato il rischio di eventi gravi a Taranto tra un minimo di 6 sinistri su mille anni di attività e un massimo di 6 sinistri su 10 mila anni. Eventualità paragonabili a quelle della Disneyland che Grillo avrebbe voluto dopo la chiusura di Taranto. Numeri che non devono essere interpretati come espressione di cinismo (infatti si chiedono ulteriori interventi), ma appunto di ragionevolezza. Mentre il combinato disposto di procuratori ipocriti e di un governo che si rimangia una clausola contrattuale di salvaguardia penale che sarà comunque imprescindibile anche in futuro, sembrano fatti apposta per far scappare gli investitori e creare deserti industriali.

In questo senso è emblematica l’altra vicenda. Condizionata dalla solita cultura anti industriale, ai Riva sono state addossate colpe degne di una fatua medioevale. Per eliminarli, sono stati spesi miliardi solo in parte recuperati con quello che, lo scriviamo qui per la terza volta, è stato un esproprio. Hanno lavorato una dozzina di commissari ben remunerati, sono stati emanati decreti, sono stati fatti scioperi in mezza Italia, si sono tenuti in ostaggio 20 mila lavoratori, si è messo a rischio (tuttora lo è) un impianto vitale per la seconda manifattura d’Europa, si sono esibiti magistrati, giornalisti, opinionisti tv nel più completo campionario del populismo giudiziario. E, dopo tutto questo, cosa scrive il Gup di Milano, che ha studiato le carte? Non è vero che i Riva hanno operato un volontario depauperamento del patrimonio aziendale, con danni «sovranisti» all’economia nazionale (il relativo reato è contemplato dai codici fascisti sopravvissuti), ma anzi è ardito sostenere che hanno fatto poco per l’ambiente, avendo cominciato a spendere per questo un miliardo, e per rinnovare gli impianti, avendo speso per questo tre miliardi. Ma c’è di più. Il giudice dice che i guai sono cominciati ben dopo il lavoro dell’azienda a metà degli anni 90, esattamente quando è stato interrotto e tutto è stato preso in mano dalle procure pugliesi e dai commissari. Era l’epoca in cui l’acciaio in magazzino era sequestrato come corpo del reato e si bloccavano 8 miliardi di risorse, per poi cancellare tutto in Cassazione. Insomma, c’è un giudice anche a Taranto, ma a che costo…

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