Fiato all’economia
Non solo grandi opere

La questione Tav continua ad essere una mina vagante non risolta, ma è solo la punta di un iceberg, perché sottostante c’è la scelta tra lavoro assistito e lavoro vero. Due modelli di Paese. Per la prima volta, dopo sette studi favorevoli, sembra ce ne sia uno che segnala uno squilibrio tra costi e benefici. Ma a decidere non sarà il prof. Ponti, che ci ha lavorato, anzi lui è il primo a dare la parola alla politica. Se Toninelli insiste, come se fosse opposizione, sulla storia della mangiatoia, si prenda la responsabilità dell’enorme costo di un passato da risarcire e di un futuro senza benefici.

Purtroppo, la questione cade dopo molte retromarce politicamente costose e c’è il rischio che diventi una resistenza di principio, o se va bene un compromesso. Si parla di una mini Tav oppure di un referendum, e per fortuna che i sostenitori della parola al popolo hanno paura di perderlo. Sarebbero altrimenti ulteriori tempi lunghi, altre paludi, e altre bugie in tv, come quella dei 20 miliardi di costo, del tutto inventati (per l’Italia, 4,7 miliardi). Ma c’è ben altro che la sola Tav, in una fase di prerecessione che invocherebbe se mai l’apertura di centinaia di cantieri di lavoro. Le grandi opere non concluse sono 20, più altre 10 approvate e mai partite: lavoro vero, un’alternativa ai divani, all’attesa di improbabili telefonate da centri per l’impiego. Milena Gabanelli, una che non è certo tenera, calcola 418 mila nuovi posti di lavoro, per cui definisce «mostruosi» ritardi e ripensamenti.

Da addebitare oggettivamente non solo all’attuale stallo tutto politico ma anche al centrodestra che pure aveva a un certo punto maggioranze bulgare, e al centrosinistra, che è sceso in piazza solo ora. Ne soffre il settore industriale delle costruzioni: il 4,8% del valore aggiunto nazionale (7% a Bergamo). Un pezzo di economia che potrebbe contrastare la recessione-stagnazione, riavviando il Pil che langue. Le grandi aziende fanno miracoli all’estero, cambiando la geografia mondiale: ponti, dighe, canali intercontinentali, ma in Italia 15 delle 20 maggiori sono in odore di fallimento. Concordati, amministrazioni straordinarie, liquidazioni. Esposizioni miliardarie non reggono tempi di decisione biblici. Mentre noi da 20 anni parliamo di 12 km italiani di galleria (su migliaia del tracciato Ovest-Est), i cinesi galoppano venendoci incontro sulla via della Seta, cominciata dopo e già molto avanti. Le aziende straniere sono pronte ad occupare il mercato italiano. Ne saranno presto stordite, perché certi percorsi kafkiani sono in grado di stroncare anche i giganti, ma chi resiste alla fine vince. Queste opere prima o poi si fanno comunque, dopo costi aggiuntivi immani del non fare, e conflitti non dedicati a migliorarle, ma alla pura contesa ideologica. Intanto, l’Anas, decapitata per ragioni di poltrone, ha cancellato, nel 2018, 600 milioni di lavori già decisi. La legge di Bilancio ne ha tagliati 600 alle Ferrovie (cioè ai pendolari…). Resistono alcune imprese di medie dimensioni, le migliori, selezionate da una spietata concorrenza, ma soffre la miriade dei piccoli fornitori: 120 mila sono già i caduti di questa guerra burocratica e politica. Poi magari lo chiamano liberismo selvaggio, mentre è l’esito di strazianti resistenze, debiti cumulati e incassi rinviati. La triste verità è che tener aperti i problemi all’infinito regala voti sia ai sostenitori del sì che a quelli del no. Entrambi ci campano, perché le «prossime elezioni» sono l’unica cosa sicura. E si guadagna di più, «aspettandole». Statisti cercansi. Non mancano progetti e neppure i soldi (ci sono 150 miliardi non spesi). Manca la percezione di una produttività immobile. Potrebbero aiutarla solo le infrastrutture, le efficienze energetiche (ma si bloccano le trivelle), credito all’innovazione (tagliato), ricerca (sparita). Investimenti, non spesa corrente elettorale.

Il Nord è il più colpito, anche se le imprese rimaste fanno miracoli. A Bergamo, nel 2018, l’occupazione ha ripreso a salire (+7,4%) e la presidente Ance, Vanessa Pesenti, auspica addirittura un nuovo «Rinascimento», capace di «attirare investitori nazionali e internazionali». È l’ottimismo della volontà.

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