Fondi dall’Europa
Diritti inviolabili

Il veto di Ungheria e Polonia sul bilancio dell’Unione Europea è un bluff, ma ritarderà l’entrata in funzione del Recovery fund, ancora da ratificare dai Parlamenti nazionali. Potrebbe fare il gioco dei cosiddetti «frugali» del Nord, molto severi per le concessioni miliardarie a Paesi che secondo i loro elettori non le meritano, e sappiamo bene che l’Italia è «il» sorvegliato speciale. Il motivo che ha fatto scattare il ricatto di Orban e Morawiecki offre però l’occasione di un chiarimento una volta per tutte. Quello che polacchi e ungheresi non vogliono è un punto di principio per l’Unione, e cioè la necessità che i suoi membri rispettino i più elementari presupposti dello stato di diritto. A Budapest e Varsavia questo non avviene da tempo e Bruxelles non può più glissare, come si è fatto sia nel Consiglio europeo che varò lo storico bilancio di corresponsabilizzazione, sia nell’ultimo vertice. È venuto il momento della chiarezza, e lo scambio stato di diritto/fondi europei è anche l’occasione per chiarire un punto democratico essenziale. Gli autocrati dell’Est sono stati infatti legittimati dal voto popolare ma continuerebbero ad esserlo, se fossero tagliati fuori dai finanziamenti europei, per loro addirittura vitali?

Fa comodo a tutti che non cadano tra le braccia di Putin, ma non possono fare gli autocrati con i soldi degli altri. È in gioco la natura stessa dell’Europa. L’Unione europea che conosciamo oggi è il risultato di un lungo percorso, pieno di curve e passi indietro, ma è nata su presupposti incancellabili. I padri costituenti (e per fortuna c’era fin dall’inizio l’Italia di Antonio Segni e Gaetano Martino, continuatori delle politiche di De Gasperi e Einaudi) vedevano l’unità europea come la risposta al secolo delle due Guerre mondiali fratricide e delle dittature ed è per questo che le fondamenta dei Trattati di Roma furono il rispetto dei diritti e la libertà di mercato. Le successive adesioni dovevano rispettare questi presupposti. Lo conferma la resistenza – contro evidenti convenienze economiche e militari – all’ingresso della Turchia, e oggi di altri Paesi come la Serbia, sull’uscio dal 2009. L’esame di ammissione è basato su requisiti molto chiari: libertà di circolazione di merci, lavoratori, servizi, capitali, e ancora concorrenza, libertà di stampa, di impresa, magistratura indipendente. Le regole della democrazia liberale.

Non che sempre tutto sia stato coerente con questi principi per chi era già membro dell’Unione, e molti occhi sono stati chiusi, sulla concorrenza a geometria variabile, sui paradisi fiscali o sui miliardi, questi sì, dati alla Turchia per bloccare le migrazioni. Anche l’Italia degli ultimi anni è stata disinvolta in campi anche diversi: dal rispetto della regola della non retroattività delle leggi in materia pensionistica, all’aggiramento dei vincoli sugli aiuti di Stato, alle numerose condanne della Corte europea per la carcerazione preventiva o il non rispetto delle regole ambientali.

Polonia e soprattutto Ungheria hanno però addirittura leso le colonne portanti di una democrazia, come la libertà di stampa e la libertà del Parlamento. Le contraddizioni su questi personaggi sono una ulteriore complicazione politica. Orban è saldamente membro del Partito popolare europeo di Berlusconi e Casini, ma è un modello per la neoconservatrice Meloni e per il sovranista Salvini. Nodi che debbono essere sciolti. Sollevare questioni di principio e veti potrebbe anche ritorcersi contro chi ha promosso questo ricatto all’Europa più europeista degli ultimi decenni. Certo è che l’Unione oggi guidata da Merkel e Macron (assente l’Italia di una politica estera afona) non può traccheggiare a lungo. La risposta seria ad un veto dovrebbe essere un esame severo dei presupposti per cui si sta in Europa e se ne godono gli enormi vantaggi. Il Regno Unito già rimpiange di essersi escluso da un’azione antipandemia di cui avrebbe fortemente bisogno. Ma è ora di chiedersi cosa ha a che fare l’Europa dei diritti con Paesi che li negano, per di più con arroganza.

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