Francesco, cambiare
garanzia di futuro

Non un semplice appello al cambiamento, ma un’accorata sollecitazione alla conversione, ad una «interiore trasformazione». Il discorso di Papa Francesco alla Curia Romana è stato un invito, zeppo di esemplari citazioni, a lasciarsi interrogare dalle sfide dell’attualità, cioè da quel «cambiamento d’epoca» evocato nella sua prima intervista alla Civiltà Cattolica, per il quale la Chiesa deve trovare parole nuove per predicare il Vangelo. Anche la Curia Romana deve attrezzarsi su questo versante.

Non è un caso infatti che la bozza di riforma sulla quale sta lavorando sia propria intitolata «Praedicate Envangelium», parole che contengono un’esortazione per Bergoglio obiettivo della riforma: «Le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione». Va letto in questo contesto anche il «motu proprio» del Papa e divulgato in occasione del discorso alla Curia, con il quale cambia le regole dell’ufficio del decano del Sacro Collegio, finora carica a vita e da ora in avanti prevista per cinque anni come per tutti i capi-dicastero della Curia Romana. Insomma la cifra distintiva della Chiesa e delle sue istituzioni resta quella del servizio all’umanità, come ha sottolineato ieri l’Osservatore Romano nel titolo di prima pagina, soprattutto in un’epoca dove il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa si è ormai sfilacciato.

Veniva definito con il concetto di «cristianità» e già Benedetto XVI nel discorso di indizione dell’Anno della Fede ne aveva denunciato la fine a causa di una profonda crisi di fede. Ieri Bergoglio ha ripreso quell’analisi e ammettendo che «non siamo più nella cristianità», occorre attrezzarsi con parole nuove e con un cambio di «mentalità pastorale», che tuttavia non assolutamente significa passare ad una «pastorale relativistica».

È la risposta a chi lo ha criticato quest’anno accusandolo addirittura di eresia. L’esame di Bergoglio invece è altamente drammatico. Per evitare che la fede, specialmente in Europa e in Occidentale, sia perfino «negata, derisa, emarginata e ridicolizzata» bisogna cambiare paradigmi per riproporre «la perenne verità di Cristo e del Vangelo». Tutti i cristiani sono coinvolti nell’impresa di proporre il Vangelo all’eclissi di Dio, ma al primo posto nella fatica vi sono le strutture della Chiesa e i suoi uomini. Francesco ha chiesto esplicitamente che esse «diventino tutte più missionarie».

Lo aveva già detto San Paolo VI, che ieri il Papa ha citato: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda». Ma, altra citazione nel discorso di ieri, lo aveva sollecitato anche il cardinale Carlo Maria Martini, quando nell’ultima intervista prima di morire aveva denunciato che la Chiesa sembra «indietro di 200 anni» e domandato «come mai non si scuote?». La risposta di Bergoglio ha messo ieri sotto la lente le rigidità, la tentazione di indossare solo un vestito nuovo, ma lasciare intatta la realtà, come avvertiva già Tomasi di Lampedusa nel «Gattopardo», anch’esso citato dal Papa.

Francesco invece non teme cambiamenti, come ha ampiamente dimostrato e ieri ribadito, ma sempre da considerare nel solco della Tradizione, memoria feconda e non statica, «garanzia del futuro» e non «custodia delle ceneri», perché, e in questo caso la citazione è del grande santo card. Henry Newman, «qui sulla terra vivere è cambiare e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni».

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