Fuoco amico
a Palazzo Chigi

Ora che la Lombardia - tutti i sindaci compatti con i vertici regionali a prescindere dal colore politico - chiede il coprifuoco notturno a partire da dopodomani, emerge clamorosamente il giudizio che molti negli enti locali danno dell’ultimo Dpcm targato Giuseppe Conte: una serie di provvedimenti blandi e frutto di troppi compromessi per essere efficace e invertire la curva dei contagi prima che vada fuori controllo. Insomma, il tentativo del governo di mettere tutti d’accordo nello stringere un po’ la vite per evitare un nuovo lockdown generalizzato non sembra ben riuscito, soprattutto laddove delega ai sindaci il potere di chiudere strade e piazze per impedire la movida: una decisione che per esempio il sindaco di Bologna Merola ha già assunto per conto suo, ma che pure i suoi colleghi – a cominciare dal presidente dell’Anci, il primo cittadino di Bari De Caro – bollano come lo scaricabarile di Palazzo Chigi che trasferisce sui Comuni le decisioni più difficili da far digerire all’elettorato, specialmente quello giovanile che finora si è mostrato abbastanza indisponibile ad una disciplina severa delle mascherine e del distanziamento sociale, anche nell’happy hour.

Non ha tuttavia gioco difficile il ministro per gli Affari Regionali Boccia quando rinfaccia agli stessi sindaci di ritrarsi da una assunzione di responsabilità in proprio, dopo aver chiesto in tutti questi mesi maggiore autonomia.

La realtà della pandemia è contraddittoria e dunque tale risulta anche l’atteggiamento di tutte le parti in causa. A cominciare dai partiti: il fronte del «no» al Mes è riuscito ancora una volta a condizionare il presidente del Consiglio che, nella conferenza stampa di domenica sera, ha rinviato di nuovo la decisione sul Fondo salva Stati che mette a disposizione della sanità nazionale un tesoretto di 37 miliardi a tasso zero e a pronta cassa che ci farebbe risparmiare ogni anno 300 milioni di interessi passivi.

Conte ha annunciato che se ne riparlerà dopo gli Stati Generali del M5S, appuntamento di per sé piuttosto ballerino. L’annuncio ha fatto infuriare Matteo Renzi ma soprattutto Nicola Zingaretti e i parlamentari del Pd la cui chat pare sia esplosa in un fuoco d’artificio di critiche verso il premier e il partito «alleato». Anche il ministro del Tesoro Gualtieri, che è parso cautamente d’accordo con il presidente del Consiglio, non è sfuggito all’accusa di eccessiva timidezza da parte dei suoi compagni di partito. Chi è contento, a parte il M5S, è anche il fronte sovranista, rigido nella sua convinzione che dietro quel prestito si celi «una trappola» dell’Europa. Nulla e nessuno è riuscito a diradare queste obiezioni, apparse «ideologiche» e poco fondate sui fatti persino a diversi governatori del centrodestra che, sul campo, sentono il bisogno di quei soldi per rafforzare la sanità pubblica delle loro Regioni: così infatti la pensa il ligure Toti insieme al veneto Zaia e al piemontese Cirio. Ma ormai il Mes è diventato un vessillo di una battaglia ideologica e il Pd si vede ogni volta sbattere la porta in faccia con il risultato di vedere crescere la frustrazione e il senso di impotenza. Bisognerà vedere se nelle prossime settimane il decorso della pandemia renderà ancora più urgente e drammatico questo tema dei fondi per la sanità: per il momento il governo ritiene di aver fatto tutto il necessario con spese adeguate e semmai rigetta sulle Regioni una certa inadempienza nel portare a termine il piano di rafforzamento delle terapie intensive e sub-intensive. Ma se le strutture dovessero rivelarsi drammaticamente insufficienti, c’è da giurare che il Mes riuscirebbe fuori come argomento profondamente divisivo.

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