I sacerdoti uccisi
testimoni
del Vangelo

L’elenco si allunga. In fondo ora c’è anche il nome di don Roberto Malgesini, il prete comasco che seguiva l’odore dei poveri e scendeva ogni giorno ai confini dell’umanità più dolente, dove ci dicono di non guardare, dove la vita è un tracollo perfetto. Negli ultimi dieci anni, secondo il sito «ilsismografo.blogspot.com» che l’aggiorna periodicamente, nel mondo sono stati assassinati oltre 200 sacerdoti. Ma il conto non è preciso. Don Roberto è l’ultimo. Un mese fa è stato ammazzato pugnalato come lui in Messico don Agustin Patino sulla porta della parrocchia.

L’elenco può essere definito, in punta di diritto canonico, un martirologio? Ieri il Papa ha definito don Roberto «martire», perché non ha barato con il Vangelo, martire, cioè testimone, di un mondo ingiusto, perché così è per tutti coloro che danno la vita e amano, senza tirarsi indietro, accogliendo l’ignoto del Vangelo, quel «vieni e vedi» che Gesù promette, senza certezze, senza sicurezza. Di molti non sappiamo quasi nulla, vite spezzate e donate, gente che conosce il Vangelo: «Quanto hai fatto a uno di questi.. l’hai fatto a me». Niente romanticismo, niente ricerca del martirio per la gloria.

Nessuno insegue il martirio. Accade e basta, se sei l’ombra di Dio e non fai distinzioni tra le persone, se non ti preoccupi di avere solo relazioni protette, se non fuggi davanti alle sofferenze e alla loro puzza, se decidi di andare oltre le regole, che fanno distinzioni tra regolare e irregolare, pulito e sporco, sano e infetto. L’amore per i poveri non fa distinzioni e qualche volta si prende dei rischi. Il posto più pericoloso è il Messico, ma anche l’Italia non scherza. A Como vent’anni fa don Renzo Beretta era stato accoltellato allo stesso modo da un poveraccio che aveva reagito malamente alle parole del prete che lo pregava di aspettare un poco e poi lo avrebbe aiutato. Don Renzo aveva aperto chiesa e canonica agli immigrati che cercavano di passare in Svizzera. Non è cambiato nulla. Quelli come don Roberto e don Renzo e molti altri come loro non aspettano «un’azione sociale appropriata». Scendono in strada. E la strada è pericolosa. Noi abbiamo paura e ci proteggiamo voltando lo sguardo o cercando conforto nella denuncia della mancata «azione appropriata delle istituzioni» o, se va bene, affidando due soldi e qualche coperta alla Caritas. Don Roberto no e nemmeno aveva messo in piedi solo una ong della pietà che tutte le mattine distribuiva caffè e latte. Lui si occupava di persone che nessuno voleva, dimenticate e costrette alla «sottovivenza». Era il suo ministero di sacerdote, martire della carità. Infrangeva anche le regole, se necessario, come i preti che hanno salvato gli ebrei o quelli che hanno protetto i ricercati dalle dittature militari in America Latina. Lo avevano perfino multato per violazione di un’ordinanza antiaccattonaggio municipale. Ma lui tra il decoro e il Vangelo aveva scelto il secondo. Stava in giro tutto il giorno perché chi «sottovive» abita lì. E vivere nell’erranza porta alla deriva, manda ai matti, fino a gesti inconsulti e omicidi.

Cosa fa chi può trarre dalla «sottovivenza» le persone? Cosa hanno fatto a Como? Non ci si può nascondere dietro l’alibi che così vogliono loro. Nessuno sceglie di non scendere da un letto alla mattina e prepararsi la colazione, di non lavarsi e non indossare vestiti puliti. Qualcosa non va. A Como l’assessora ai Servizi sociali, pochi giorni fa, ha strappato una coperta a chi dormiva in strada, e prima aveva chiuso i centri di accoglienza e perfino i bagni pubblici. Don Roberto aiutava, nutriva, vestiva, martire della Chiesa, di Como che resiste e dell’Italia migliore. Uno tenace che mai indietreggiava. Uno di noi, speriamo.

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