Il contagio economico
ma la Cina va sostenuta

Non c’è soltanto l’aspetto sanitario in questa dannata faccenda del coronavirus. C’è anche il contagio economico, spesso figlio della psicosi collettiva di cui stiamo diventando inesorabilmente vittima. Una psicosi peraltro comprensibile, dato che la faccenda è seria al punto che anche il governo italiano ha decreto lo stato di emergenza nazionale. Certo i primi a subirne le conseguenze saranno i cinesi, quelli di Pechino e quelli emigrati nei quattro angoli del Pianeta. Basta gettare un’occhiata nei ristoranti cinesi in questi giorni, dove non occorre certo prenotare.

Ma i cinesi non saranno i soli a essere colpiti dal «cigno nero» del coronavirus, come lo definirebbe il matematico Nassim Noicholas Taleb, che ha sviluppato la teoria dell’imponderabile in economia. A perderci siamo tutti, a parte forse le aziende che producono mascherine.

Ieri il direttore de L’Eco Alberto Ceresoli ricordava l’impatto possibile di un punto di Pil per il Paese del Dragone e fino a 0,3 punti per l’economia globale. L’interdipendenza economica oggi è un dato di fatto. Se si ferma la Cina, rallenta il mondo. Lo si è visto con i listini di Borsa, crollati più volte, anche se il virus non è ancora entrato nella sua fase parossistica e non si sa quando raggiungerà il suo picco. Aggiungiamo il turismo, che da almeno una decina d’anni in Italia è in grandissima espansione. Le principali compagnie aeree hanno sospeso i voli da e per la Cina, fino a data da definirsi. Confesercenti ha stimato nei primi nove mesi del 2018 una spesa di 626 milioni di euro da parte dei turisti con gli occhi a mandorla. E ora? Alberghi, ristoranti, imprese di prodotti di lusso e moda pagheranno conseguenze importanti, lo stop si farà sentire.

Vi è poi la questione degli scambi commerciali, anche questo in aumento, fino all’arrivo del coronavirus. Il consumatore cinese è diventato un fattore di crescita molto più importante per le aziende commerciali di un tempo. Per stare alla sola Lombardia l’interscambio era in continua crescita, con un import di dieci miliardi di euro e un export di tre miliardi. Le nostre oltre 1.700 imprese presenti in Cina sono in difficoltà per via dell’enorme cordone sanitario che circonda il gigantesco Paese. Per il fitto reticolo di aziende ed esercizi presenti in Italia, poi, le conseguenze sono ancora più gravi. La psicosi induce a non entrare più in un bar gestito da cinesi, a evitare un parrucchiere cinese, a non recarsi negli esercizi di estetica cinese, come quelli degli smalti per le unghie. Ci sono 50 mila piccoli imprenditori cinesi che lavorano, producono, si riforniscono e consumano in Italia, spesso dando lavoro ad italiani. Gli effetti sull’indotto si vedranno presto.

Si è detto che il Paese ce la farà a rientrare con i danni economici, come fece al tempo della Sars. Ma al tempo della Sars la Cina non era ancora un Paese così progredito e sviluppato, con una rete ferroviaria, autostradale e aerea che ormai è equiparabile a uno Stato occidentale. Il coronavirus, con tutti i suoi addentellati economici, dicono gli esperti, dispone di vie e snodi di comunicazione molto più ampi dei tempi di quel virus (ma per fortuna anche di misure di sicurezza più progredite). Forse una delle misure economiche da prendere - pensando soprattutto al futuro - è studiare forme di facilitazione fiscali e commerciali di vario tipo per le imprese cinesi. Il popolo della Muraglia in questo momento si sente solo e isolato rispetto agli altri tre quarti di mondo. E fare in modo che quando il Dragone si riprenderà (perché questo è sicuro) si ricorderà che gli siamo stati vicini in tempi difficili, potrebbe essere molto vantaggioso, oltre che umano.

© RIPRODUZIONE RISERVATA