Il forte calo di Apple è una cartina di tornasole

I sondaggi demoscopici fanno ormai opinione. Ma a volte bastano semplici indicatori per capire che vento tira. Apple è un magnifico esemplare di successo, un’azienda sana, tecnologicamente sempre un passo avanti. La Borsa anche in piena pandemia l’ha premiata. I tecnologici sono il futuro del pianeta si diceva. Ed è probabilmente vero se non fosse che le coordinate del mondo sono così cambiate che il numero uno di Cupertino non può far a meno di registrarle.

Per il corrente semestre si stima che il gigante californiano abbia un calo di fatturato tra i quattro e gli otto miliardi. Il telefonino nelle società moderne è diventato il compagno inseparabile di una vita per la quale non è previsto il divorzio. Basti guardare gli indici. Per il Censis tra il 2007 e il 2020 a fronte di un impoverimento delle famiglie italiane del 13% nei consumi, gli smartphone e i computer registrano un balzo rispettivamente del 450% e dell’89,7%. La necessità di adeguarsi allo strumento genera una gerarchia negli acquisti dei consumatori. Il corso dell’azienda tecnologica prescinde dalle congiunture e quindi diventa un sismografo immediatamente leggibile per capire dove va il mondo.

Fondo monetario internazionale, Banca mondiale emettono bollettini utili e fondati ma non a tutti accessibili, con Apple basta uno sguardo a Bloomberg e sappiamo qual è la direzione. Steve Jobs ha fondato nel 1976 un’impresa che vanta successi strepitosi ma in due mesi la sua creatura ha perso il 23% del suo valore per circa 580 miliardi di dollari. Perché? Il primo fattore sono i componenti. La catena di fornitura fatica a raggiungere i livelli prepandemici. La politica di lockdown perseguita dalla Cina ha rallentato la produzione e al contempo ha ingolfato il porto di Shanghai porta di accesso e di uscita delle merci dalla Cina. Lentamente si allenta la densità di stazionamento dei cargo nella baia cinese. Il problema verrà risolto. Ma gli investitori si domandano per quanto tempo.

È emersa chiaramente la vulnerabilità della linea di approvvigionamenti. Nello scorso anno è bastato un banale incagliamento della nave Ever Given nel canal di Suez per tener in ostaggio i rifornimenti all’Europa e far salire il prezzo del greggio. Il secondo fattore è l’inflazione. Apple ha ridotto la produzione da 240 milioni a 220 milioni di iPhones per quest’anno. I rincari e i temuti segnali di recessione si ripercuotono immediatamente sul borsellino a livello globale. E del resto in Italia uno su tre teme per il pane. Il sondaggio di Alessandra Ghisleri segnala un Paese impaurito e l’Italia non fa eccezione. La percezione è che vecchi equilibri siano saltati e che l’incertezza domini il futuro anche della miglior azienda del mondo. A conferma che non è l’economia che guida le sorti del mondo ma l’uomo che sa gestirla. La sfida è orientare con saggezza la transizione.

Le catene di valore vanno meglio distribuite e regionalizzate. Settori produttivi strategici come i micro chips dovranno essere prodotti direttamente nel continente che li consuma o quantomeno in occidente per ridurre le distanze e non cadere sotto il ricatto di altre potenze quali Russia e Cina. Questo comporta a sua volta una riduzione degli scambi commerciali con questi regimi. Per Paesi come la Germania è un cambio traumatico. Berlino si è vocata all’export al punto che il 40% della produzione Volkswagen finisce sul mercato cinese. Per poter far fronte alla produzione crescente l’industria tedesca si è resa russo-dipendente per il gas e il petrolio. Ha seguito la convenienza commerciale delle imprese nella convinzione che l’economia guidasse la politica. Putin ha provveduto a dare una lezione di storia.

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