Il nuovo Salvini
più tatticismi

Il congresso della Lega, a Milano, si svolge nell’anno zero del post Papeete. Un «anno bellissimo», come da profezia di Conte, probabilmente bellissimo solo per un campione del trasformismo amabilmente coccolato da Zingaretti confessatosi al «Corriere». Un anno in cui «abbiamo un po’ esagerato», come da esplicita ammissione di Grillo, in vena di sganciamento dal pensiero unico del Vaffa, ora che la sua creatura, con l’acqua alla gola, fa parte della casta dell’establishment e riesce ad essere convincente solo quando è in grado di smentire se stessa.

Salvini arriva all’appuntamento con le ossa rotte dall’estate più pazza della politica italiana, ma conservando un consenso elevato sia personale sia a livello di partito. Il popolo leghista è fatto di un voto d’opinione ma soprattutto dello zoccolo duro di fedeli allineati e coperti, che ci credono e che non tradiscono. Il Capitano non dovrebbe avere problemi nel cortile di casa. Il mal di pancia di alcuni esponenti della vecchia guardia bossiana sono punzecchiature in una comunità in cui convivono il nazionalpopulismo e l’eredità padana gestita dai governatori del Nord che, inseguendo il mito dell’autonomia differenziata, restano a guardia del bidone.

Poi vedremo se dal congresso, attraverso la modifica dello statuto con due soggetti giuridici diversi (Lega Nord e Lega Salvini premier), uscirà la liquidazione del partito che fu o se – per dirla alla Maroni – sarà un passo verso l’evoluzione di un soggetto politico diverso ma con le radici nel passato. In realtà il dado della Lega nazionale e di quella personale a misura del leader è già stato tratto, non da oggi: Salvini è uscito da tempo dai confini identitari del «sindacato del territorio», riorganizzando il centrodestra sulla formula di una destra con l’elmetto ora che il berlusconismo rischia di essere affidato ai curatori fallimentari. E in attesa di conoscere il tipo di approdo che consegnerà alla nuova destra il prossimo voto in Emilia Romagna, la madre di tutte le battaglie.

L’uomo appare un po’ diverso rispetto a quello di ieri quando era chiamato il Truce, quando alla guida del Viminale era passato come una ruspa sullo Stato di diritto e su quella cosa preziosa che si chiama umanità, il capopopolo che aveva portato il dibattito pubblico ai confini di quello che un tempo si sarebbe detto l’arco costituzionale. Non che finalmente abbia scelto qualche socio presentabile, perché nel frattempo è passato dal campo di Putin (ricordate le ombre russe del Metropol?) a quello di Trump. Ma il suo movimentismo appare più morbido: aspettando la verifica sul piano dell’onestà intellettuale, resta per ora valida l’idea che il nuovo Salvini, cacciatosi in una zona d’ombra, sia il risultato di una debolezza e di un assedio esterno. Nel proporre una specie di pacificazione nazionale (respinta al mittente dal Pd), continua a lavorare per erodere i numeri della maggioranza con lo shopping fra i Cinquestelle. Scommette sulla crisi di governo a breve sotto la copertura di contorti tatticismi, tipo larghe intese, perché teme che l’insieme di due fragilità (grillini e dem) si riveli un inedito kit di sopravvivenza.

Poi c’è la questione della nave Gregoretti con il voto del 20 gennaio sull’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro per sequestro di persona. Un macigno, non c’è che dire, tuttavia Salvini può contare sul fatto che ne vedremo delle belle, sulla speranza inconfessata nel soccorso renziano in nome della non ingerenza dei magistrati nella politica e soprattutto sulla maldestra gestione del caso da parte dall’ex compagno di merende, Di Maio, che ha già annunciato il voto contro l’ex alleato. L’argomento del capo grillino, appoggiato da Conte, è che il blocco della nave Diciotti (con i grillini schierati dalla parte dell’allora ministro dell’Interno) fu condiviso da tutto il governo gialloverde, mentre sulla Gregoretti ha deciso il solo Salvini.

Qui il garantismo e il giustizialismo, comunque pelosi, non c’entrano, c’entrano piuttosto il cinismo e il regolamento di conti fra carissimi nemici: Di Maio cerca di salvare se stesso per evitare che il leghista gli porti via i resti di un movimento in disarmo e Salvini, a sua volta, tenta la spalla decisiva contro l’esecutivo. Tutto questo indica comunque che l’ex politico di strada fattosi abile condottiero non avrà vita facile e il suo non sarà esattamente quel «bellissimo percorso» annunciato ieri al congresso.

Perché, al netto dei suoi tanti avversari, ce n’è uno particolarmente temibile: il ritrovato senso della realtà dopo il fidanzamento con la grande semplificazione. Si discute se l’onda populista abbia raggiunto il massimo dell’estensione, ma la realtà dell’Italia già rema contro il senso comune illiberale. Il Paese è rimasto umano restando se stesso, il governo paga i conti (compresi quelli del mojito), l’Europa fatica ma prova a riformarsi senza bisogno dei nazionalisti. Ecco: il giorno in cui Salvini, figlio imperfetto di una stagione da dimenticare, si convincerà della necessità di un pensiero autocritico in quanto consapevole della realtà, sarà una data da ricordare. Anche per il suo bene.

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