Il pallottoliere
delle alleanze

C’è già chi si sta esercitando con l’aritmetica per ricordarsi se, messi insieme, i parlamentari democratici e grillini alla Camera e al Senato dispongano dei numeri sufficienti per fare la maggioranza. Erano calcoli fatti già un anno fa, quando mezzo Pd era orientato a cauterizzare la sconfitta elettorale con un’alleanza ardita («Voi mettete la truppa e noi l’esperienza»), e invece Renzi si mise di traverso e tutto finì con grande scorno di Maurizio Martina, Dario Franceschini e Roberto Fico. I numeri, allora come oggi, ci sarebbero: sia a Montecitorio che a Palazzo Madama.

Inoltre il Pd ora è guidato da Nicola Zingaretti che nella sua Regione Lazio può guidare la Giunta proprio grazie ai voti del M5S tanto da essere sospettato (dai renziani) di voler prima o poi ripetere l’esperienza in campo nazionale: Zingaretti nega ma non convince i detrattori. Il punto però è che Renzi nel Pd oggi conta poco e soprattutto ha ceduto a Zingaretti l’arma di ogni segretario: la compilazione delle liste di candidati alla Camera e al Senato. Ma perché si torna a parlare di questa ipotesi di un governo M5S-Pd?

Per due ragioni. La prima è che Salvini e Di Maio sembrano aver smesso di far finta di litigare ed essere davvero l’uno contro l’altro (se anche questa fosse una commedia a beneficio del pubblico sarebbe recitata benissimo). La seconda ragione è che il M5S, polemizzando ogni giorno con la Lega, negli ultimi tempi ha finito per accentuare una delle sue tante anime, quella di sinistra. Motivo per cui mentre Salvini il 25 Aprile era lontanissimo da qualunque celebrazione della festa della Liberazione, tutti i grillini si sono riversati nei cortei accanto ai Democratici che vi sono presenti in massa da sempre. Si possono elencare molti altri segnali che fanno intendere una certa affinità tra pentastellati e democratici, senza contare che ormai tanti intellettuali «progressisti» si stanno spendendo per agevolare questo fidanzamento. «Gli elettorati sono gli stessi», dicono e scrivono i professori Massimo Cacciari, Gustavo Zagrebelsky, Gianfranco Pasquino, Salvatore Settis, pronti a qualunque acrobazia pur di fermare la Lega sovranista, considerata senza troppe remore una destra parafascista.

Il punto è: davvero la lite elettorale tra Salvini e Di Maio porterà a un punto di rottura dopo le elezioni europee? Questo non lo sa nessuno, forse precisamente nemmeno i diretti interessati, ma certo ogni giorno si sfiora la rottura: per esempio sul caso Siri, il sottosegretario leghista indagato per corruzione che Salvini difende e Di Maio vorrebbe cacciato dal governo; e adesso anche sulle province che secondo la Lega andrebbero rimesse in piedi cancellando la riforma Delrio mentre i Cinque Stelle si oppongono fermamente al riesumato «poltronificio».

I conti veri ovviamente si faranno dopo il 26 maggio: se, come tutto porta a pensare, i leghisti raddoppieranno i loro voti e i grillini li dimezzeranno, comunque un terremoto politico ci sarà anche se non muterà i numeri di Camera e Senato, dove il M5S resterà il primo partito. Salvini, sulla base dei nuovi presumibili rapporti di forza, dovrà decidere se gli conviene mantenere in piedi il governo – magari rinegoziando i posti di potere – o invece far precipitare la situazione verso nuove elezioni politiche. Ma anche Di Maio avrà lo stesso dilemma e potrebbe usare proprio i democratici come arma nei confronti dell’attuale alleato.

Di certo chiunque governerà nei prossimi mesi dovrà intestarsi una dura manovra sui conti pubblici, del tutto impopolare, e trovare decine di miliardi per non far esplodere la situazione.

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