Il virus due anni fa
Boom Cina, i rischi

Due anni fa, proprio in questi tempi, televisioni e giornali italiani iniziavano a raccontare la diffusione di un nuovo e sconosciuto virus in Cina. Uno dei topoi di quei primi giorni, quando noi italiani sembravamo ben distanti dal pericolo, fu la costruzione a tempi di record di un mega ospedale nei sobborghi della città di Wuhan, epicentro della pandemia. I nostri media rilanciavano i video in timelapse forniti dalla televisione pubblica cinese che ritraevano operai, camion e bulldozer mobilitati nell’impresa ingegneristica, e la stampa snocciolava dati impressionanti: un ospedale nuovo di zecca, tirato su in 10 giorni e pronto per il 3 febbraio, con 1.000 posti letto riservati ai pazienti di una malattia polmonare che - secondo Pechino - aveva fatto al massimo una ventina di vittime in un mese.

Quella scelta compiuta dalle autorità e quei video che ne testimoniavano la realizzazione diventarono, agli occhi di un Paese come il nostro, affetto da lungaggini decisionali e lentezze operative, una prova di estrema efficienza e potenza, un sigillo per la Repubblica popolare assurta al ruolo di potenza mondiale, una condotta quasi da invidiare e da celebrare. Eppure c’era un altro segnale che avremmo potuto e dovuto cogliere dietro le immagini di propaganda: considerato che la Cina da tempo era dotata di strutture sanitarie di tutto rispetto, calibrate per una popolazione numerosa, già pronte a reggere gli effetti di emergenze importanti (dalla Sars ai violenti terremoti), da dove nasceva allora l’urgenza di creare tanti nuovi posti letto? Quella scelta nascondeva in realtà la necessità di rispondere a un virus altamente contagioso, che causava spesso l’ospedalizzazione dei pazienti e imponeva la ventilazione meccanica degli stessi in una percentuale non trascurabile dei casi. Tutti aspetti del Covid-19 che abbiamo conosciuto in ritardo e sulla nostra pelle nei mesi successivi, ben celati dalle prime comunicazioni ufficiali e quantomeno minimaliste di Pechino, ma che avremmo già potuto intravvedere dietro l’inusitato sforzo logistico-sanitario di quei giorni.

Due anni dopo, in tutto l’Occidente dovremmo ormai essere consapevoli dei rischi legati a certe illusioni ottiche di cui siamo vittime quando scrutiamo la Cina, tra insufficiente conoscenza addebitabile a noi stessi e scarsa trasparenza «made in China». Ora, per esempio, anche Pechino è alle prese con la variante Omicron del Sars-Cov-2, molto più rapida a diffondersi delle precedenti, e così dall’ex Impero celeste ecco arrivare la notizia di contagi avvenuti sempre e solo per colpa di turisti e pacchi postali dall’estero (ipotesi tutt’altro che credibile secondo le principali autorità sanitarie mondiali), insieme alle immagini di frequenti lockdown in varie metropoli del Paese. Di nuovo, telecamere e sguardi occidentali indugiano sulle superstrade deserte tra i grattacieli spettrali, sulle file lunghe e ordinate di persone in attesa di un tampone, sulle consegne capillari di beni di prima necessità ad opera di militari e dipendenti pubblici.

Ha iniziato la città di Xi’an, con i suoi 13 milioni di abitanti confinati in casa da fine dicembre per tre settimane, e poi da gennaio lockdown a Dalian al nord, a Shenzen al sud, quindi a Ningbo, il terzo porto commerciale del pianeta, infine restrizioni crescenti a Pechino e l’annunciato stop al pubblico alle Olimpiadi invernali. Rispetto alle incertezze occidentali, ecco un’altra dimostrazione plastica di potenza ed efficienza asiatica. Ma è davvero tutto oro quel che luccica? Eradicare un virus così contagioso a suon di chiusure draconiane, peraltro con vaccini domestici non altamente efficaci, rischia in realtà di essere una fatica di Sisifo e di infliggere danni sproporzionati all’economia del colosso asiatico e dunque a quella mondiale. In ragione della «politica del Covid zero», infatti, si bloccano infrastrutture e si interrompono catene globali del valore; Toyota e Volkswagen hanno dovuto fermare le loro fabbriche a Pechino, e la stampa internazionale è piena di episodi di multinazionali - da Airbus a Samsung - con processi produttivi in tilt. Non a caso, nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia, il tasso di crescita del Pil cinese (+8,1% quest’anno e +5,1% atteso nel 2022) è quello che ha subito le revisioni al ribasso più significative (rispettivamente -0,4% e -0,7%). Sforzandosi di andare oltre le apparenze, imprenditori e consumatori occidentali farebbero bene a prendere le misure, almeno stavolta.

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