In Birmania
l’amore disarmato
dei cattolici

In ginocchio con le braccia aperte e con le mani giunte, davanti ai fucili e agli scudi della polizia. Le fotografie che arrivano dal Myanmar (ex Birmania) della paura e della violenza sono l’immagine perfetta della Chiesa che esce dal Tempio e si getta nella Storia. Letteralmente in ginocchio. Ha incominciato suor Ann Rosa Nu Tawng e ha detto di non sapere neppure perché lo ha fatto. È accaduto tutto velocemente. La polizia che caricava i manifestanti, i feriti che si riversavano nella clinica dove suor Ann lavorava. La gente che scappava, i fucili puntati e lei che gridava e correva verso gli scudi dei poliziotti e si inginocchiava: «Sparate, non me ne andrò».

E poi tante altre, suore e preti, in molte città della ex Birmania, messaggio unico, fotografie che fanno il giro del mondo, immagini che valgono mille parole e diventano icone dell’amore disarmato, primato della coscienza contro il potere politico e militare. Ricordano quella dell’uomo solo con le braccia alzate davanti ai carri armati in piazza Tienanmen il 5 giugno 1989, le suore, i preti e la gente con il rosario nelle Filippine nel 1986 per chiedere la fine della dittatura del presidente Marcos, le proteste di Hong Kong.

Non c’è una regia politica, non c’è un’organizzazione dietro quei gesti. Nascono dalla pratica del Vangelo, radicamento profondo nella Parola efficace di Dio che dà forza alla vocazione e diventano normali per chi la prende sul serio. Esattamente come fece Gesù nel racconto di Giovanni quando le guardie andarono per arrestarlo e si frappose perché i suoi fossero salvati: «Prendete me». Suor Ann e le altre e molti sacerdoti cattolici e pastori protestanti, come i monaci buddisti in passato, hanno esercitato al sommo grado disponibilità e coraggio e non si sono posti il problema della convenienza, né dell’efficacia, né della prudenza. I soldati potevano sparare, ma non l’hanno fatto. In un’altra immagine davanti ad una suora vestita di bianco che si inginocchia e addirittura si prostra a terra davanti ai soldati, due di loro eseguono lo stesso gesto, segno dell’impossibile, indizio che si può disarmare l’odio. Non sono supereroi, né cavalieri senza macchia e senza paura. Il racconto di suor Ann è intriso di stupore per un gesto irrazionale che poteva costarle la vita e di paura, di cui solo dopo ha avuto consapevolezza. In due città dell’ex Birmania, a Myitkyna e a Loikaw hanno evitato una strage, anche se due giovani sono stati ugualmente uccisi e molte centinaia arrestati. Così le suore hanno deciso di non tornare in convento e in piazza a far da scudo sono scesi anche padre Ceslo Ba Shawe e un pastore protestante, abiti bianchi e braccia alzate davanti alla polizia, forza debole del Vangelo opposta alla brutalità del potere e fiducia immensa nell’animo dell’uomo, anche il peggiore, il più brutale con il dito sul grilletto pronto a sparare.

Sono sicuri di convincerli a desistere, sono sicuri di farcela. Chiedono un po’ di tempo e sperano che il resto del mondo non guardi sempre dall’altra parte. La resistenza pacifica richiede pazienza, ma ha bisogno che nessuno inciampi nella trappola del silenzio e dell’oblio, armi del potere più efficaci delle pallottole.

L’errore da non fare è nutrirsi solo di entusiasmo liquidando in fretta la potenza politica, religiosa e conciliare di quelle fotografie. Il cardinale Bo, arcivescovo di Yangon, nell’ultimo messaggio rivolto ai fedeli ha detto che «un nuovo Myanmar è possibile se questa nazione si trasfigura nella gloria che merita. Rendiamo la pace il nostro destino e non il conflitto, le armi sono inutili, bisogna riarmarsi con la riconciliazione e il dialogo». Come fanno le suore e i preti in ginocchio.

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