Industriali: guida
che sa fare politica

Il netto vantaggio con il quale Carlo Bonomi è stato designato nuovo presidente di Confindustria, oltre a smentire qualche eccessivo ottimismo della rivale Licia Mattioli fatto circolare negli ultimi giorni, segna una svolta importante per la rappresentanza degli industriali italiani. Dopo due presidenze decise al fotofinish - sia quella di Squinzi (verso Bombassei) che quella di Boccia (verso Vacchi) - si torna ad un largo consenso. È una svolta di importanza uguale e contraria a quelle precedenti. Queste ultime, infatti, avevano avuto il pregio di valorizzare la natura per così dire «democratica» del nuovo Statuto voluto da Carlo Pesenti, che aveva reso contendibile la presidenza.

Era un segno bello di verità e di trasparenza in un’organizzazione storicamente conformista, sensibile ai poteri forti interni. Ma questa volta è altrettanto bello questo risultato sintomo di vero consenso, tanto più considerando un voto non solo segreto ma non influenzabile dai corridoi di viale dell’Astronomia, perché dato in via telematica, a distanza.

È oggettivamente quello che serve, in un momento così drammatico per il Paese, ma soprattutto per le imprese. Carlo Bonomi è stato dunque vissuto dai suoi colleghi come l’uomo giusto proprio perché siamo in una fase tanto difficile, ed ha certamente prevalso il giudizio sulla persona, un combattente di grande capacità dialettica, che sa interpretare i sentimenti profondi di una imprenditoria che deve conciliare la convenienza dell’essere governativa (grande ammonimento del vecchio Agnelli) con la forte ostilità culturale di un Paese che non riconosce l’impresa come fattore di modernizzazione e sviluppo.

La persona, insistiamo. Si dirà che Bonomi è espressione della più grande associazione del Paese, quella di Milano, ma chi conosce Confindustria sa che questo è se mai un handicap, un motivo di diffidenza. Bonomi è piuttosto il presidente che nella penultima assemblea della sua associazione ha fatto tremare i muri della Scala come neanche Pavarotti aveva mai saputo fare, attaccando il populismo neo assistenziale di un Governo anti europeo e anti impresa. Presentandosi dunque come l’antitesi alla deriva dei miliardi dati per ragioni elettorali e non per creare le condizioni di una spesa pubblica al servizio dello sviluppo.

Oggi, il clima cambiato faceva pensare ad un approccio più morbido del nuovo presidente, ma le prime dichiarazioni sono arrembanti e sferzanti. Stroncano per l’appunto una cultura anti impresa e bocciano subito provvedimenti che «servono solo ad indebitare le imprese», da parte di un Governo «smarrito, che non ha idea della strada da percorrere». Niente sconti, insomma. Bonomi resta quello della Scala, e i suoi associati lo sosterranno. Già, perché ormai da tanto tempo Confindustria ha capito che il suo capo non deve essere tale per il prestigio di una dinastia o per la grandezza dell’azienda, ma per la capacità di far politica. Lupo tra i lupi, se necessario.

In una fase tanto impegnativa per il futuro dell’economia nazionale, che non si salverà se non si salva l’imprenditoria privata, è probabilmente un segnale di riflessione anche per il sindacato, che ha recentemente arruolato come uomo forte un Landini, in attesa che la politica faccia le sue scelte, anch’essa alle prese con l’importanza di uomini al comando che siano credibili.

Tra i commenti della nuova presidenza Bonomi si è parlato molto di un ritorno del Nord, dopo il campano Boccia (che ha fatto bene). Non crediamo a queste dicotomie, ma registriamo dopo otto anni il ritorno di Bergamo tra i vincitori (peraltro nel 2012 era in campo Bombassei e si sfiorò il successo), là dove ad esempio Brescia si è divisa. È comunque un fatto positivo per la nostra economia.

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