Inghilterra e America
insieme per vincere

Con la vittoria di Boris Johnson alle elezioni del 12 dicembre 2019 la Brexit ha trovato il suo suggello. Adesso non si può più dire che gli euroscettici hanno vinto per una manciata di voti ovvero per l’1,89% in più. Diversamente dal referendum del 2016 la maggioranza per il partito conservatore è stata schiacciante. Se consideriamo che anche nel Labour Party i Brexiteers sono di casa appare evidente che per la stragrande maggioranza della popolazione il destino della Gran Bretagna si gioca fuori dell’ Unione Europea.

Non facciamoci distrarre dai calcoli dei negoziatori sui maggiori o minori vantaggi per le due parti al di qua e al di là della Manica. La vera partita è strategica ed è il punto di svolta di una crisi che si trascina dal 2008. È un momento chiave che fa capire anche ai britannici che il vento è cambiato e gli equilibri si sono spostati verso la nuova potenza continentale. Ai pragmatici anglosassoni il nome Europa per il quale i 27 membri dell’Unione si spendono è uno specchietto per le allodole, si dice Europa e si pensa Germania.

La stessa cancelliera Angela Merkel si era premurata di definire che ciò che è interesse della Germania è necessariamente anche interesse dell’Europa. Una tesi che sinora nessuno ha osato rovesciare semplicemente perché ciò che fa bene all’Europa non troverebbe l’assenso degli elettori e della classe dirigente tedesca. Ha buon gioco Trump ad additare al Forum di Davos il suo Paese come esempio di crescita. L’aumento del Pil dell’Unione nel 2019 viaggia sull’1% e decimali e la Germania della «schwarze Null» (zero nero), ovvero dell’attivo di bilancio, può ben dire che ha i conti in ordine, ma poi arranca in assenza di investimenti pubblici e rilancio della domanda interna.

Quando nel 2009 gli americani si sgolavano per convincere gli europei a dare fiato all’economia i tedeschi con il ministro delle Finanze Schäuble proponevano la punizione della Grecia. L’approccio prima ancora che economico è morale: i greci vanno puniti per aver falsato i dati del deficit. Ed è qui che il mondo anglosassone si divide da quello tedesco. Benjamin Franklin, uno dei fondatori dell’Unione americana a stelle e strisce: «Non si hanno affatto troppi lavoratori, ma piuttosto pochi soldi in circolazione, e quelli che circolano portano con sé un peso senza fine di un debito impagabile e usura», intendeva dire che è compito dello Stato dare iniezioni di moneta ad un’economia in difficoltà.

La Germania non ha osato ed ha affidato il compito alla Banca centrale europea. Draghi ha svolto il suo compito con solerzia e abnegazione ma il via libera da Berlino è arrivato quando l’euro stava per saltare e il what ever it takes l’ha solo ripreso per i capelli.

L’egemonia della Germania è spiegabile. Più del 60% delle esportazioni tedesche è in Europa e non è pensabile una riduzione dell’economia tedesca senza coinvolgere una buona fetta di piccole e medie industrie fornitrici per esempio in Italia, dove la componentistica per l’auto made in Germany è determinante. Lo stesso dicasi per l’Est europeo dove le grandi industrie tedesche hanno dislocato una parte delle produzioni a basso valore aggiunto.

Con la Francia va invece avanti il processo di fusioni dei grandi gruppi sul modello Airbus col fine di dare soddisfazione all’innato nazionalismo gallico sapendo che le vere fila dell’economia si tirano a Berlino. Ecco un’Europa così per la Gran Bretagna è troppo stretta. Alla fine il progetto è chiaro con l’America di Trump i britannici vogliono ricostituire il blocco anglosassone e riprendersi quello che sino a ieri era stato loro: la leadership dell’Occidente.

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