La palla è gettata
nel campo grillino

La crisi del governo Conte-Salvini-Di Maio è la prima sconfitta di un esecutivo populista in Europa e già qui si capisce la posta in gioco, tanto più che l’Italia è stata la linea avanzata di un’offensiva ostile alla liberaldemocrazia determinata dall’inedito di un pasticcio fra sovranismo di destra e populismo ibrido. Conte, sul piano personale, è uscito con dignità, ma ha potuto farlo, sia pure a scoppio ritardato, perché ha smesso di fare l’«avvocato del popolo».

Anche le parole che hanno accompagnato l’uscita di scena confermano che il populismo non fa danni se e quando tradisce la propria ragione sociale, cioè se non mantiene quel che ha promesso e comincia ad essere una cosa diversa. Perché, in misura differente, nessuno dei tre attori può chiamarsi fuori: le tardive accuse a Salvini non equivalgono ad un’autoassoluzione degli altri soci, mentre sarebbe utile illuminare quegli angoli oscuri che rendono ambigui e indecifrabili i motivi autentici e i tempi del divorzio.

Quella dell’invincibile Salvini è stata una rovinosa caduta, la prima botta per i sovranisti, ma più in generale rivela quel che succede quando un politico tutt’altro che sprovveduto rimane vittima del proprio estremismo, perdendo lucidità e contatto con la realtà extra balneare: Papeete e dintorni, capopopolo o capospiaggia, galleggiano orfani delle responsabilità istituzionali e della sensibilità costituzionale.

I grillini, sconfitti pure loro per incompetenza e per spirito da crociata, nella migliore delle ipotesi escono ridimensionati e sembra essersi esaurita la spinta propulsiva del partito - come da definizione del filosofo Biagio de Giovanni - «fondatore del nuovo sovversivismo italiano». Per rimediare, come si intuisce dall’orientamento delle consultazioni di Mattarella e dall’urgenza di un’economia in sofferenza, i tempi sono necessariamente stretti. Ieri il Pd, con un documento all’unanimità della direzione, ha battuto un colpo in quella che è una delle ipotesi in agenda: un governo con i pentastellati. Una prospettiva più che difficile e da calibrare, a rischio trasformismo per chi si è sempre combattuto pure sulla diversità antropologica, eppure ritenuta anche un’esplorazione necessaria per garantire la tenuta dei conti pubblici in una fase di crisi internazionale fra Brexit, quasi recessione in Germania, guerra dei dazi fra America e Cina. Il cerino che scotta, in questa ipotesi tutta da costruire, passerebbe così in mano al Pd su un terreno sdrucciolevole ma praticato ai fini dell’interesse collettivo.

Da un lato l’inaffidabilità grillina e le loro divisioni, oltre alla difficoltà di capire la fonte e i titolari delle decisioni che contano. I pentastellati sarebbero chiamati a cambiare pelle, a reinterpretare in modo diverso, diciamo razionale, i temi che in questi anni hanno agitato. Dall’altro si tratterebbe di ingoiare il rospo, perché va messo nel conto un ventaglio di reazioni che una simile operazione potrebbe suscitare, compreso un sentimento di rigetto verso la mossa disperata di chi ha paura di tornare al voto.

Lo scarto a sorpresa, come si sa, è uscito dal cilindro di Renzi che, per quanto sia venuto dopo l’uscita dell’ex ministro Franceschini, ha impallinato Salvini e sparigliato tutti i giochi. Nel dibattito di martedì al Senato, Renzi l’ha buttata lì quando ha accennato ad un gioco di sponda fra Salvini e Zingaretti, cioè di intelligenza con il nemico, per andare subito al voto. Il Pd, al di là di qualche apparenza, è diviso fra il gruppo parlamentare renziano e la leadership di partito in mano a Zingaretti. Il ritorno di Renzi unito alla mossa del cavallo che ha rotto gli schemi si pone anche sulla traiettoria dei destini personali: quelli dell’ex presidente del Consiglio, che potrebbe far nascere un suo partito centrista, e quelli dell’attuale segretario colto impreparato dalla crisi, fino a ieri rassegnato ad un Pd da testimonianza politica e che tuttavia ora ha ottenuto un mandato pieno a verificare se esistono le condizioni per un governo di ampio respiro. Anzi, andando oltre il governo istituzionale anti crisi di Renzi, il documento della direzione Pd si spinge sino a prospettare un esecutivo di svolta per la legislatura. La nota, pur non escludendo le elezioni, fissa i paletti, delimita il campo da gioco e comincia dai contenuti: collocazione europea, discontinuità con il governo Conte, diversa politica economico-sociale, niente rincari fiscali. La palla è gettata nel campo grillino e l’impressione, al di là di quel che può succedere, è che l’impatto della crisi influenzerà i rapporti di forza all’interno dei due partiti. Una partita parallela: aspettiamoci qualche sorpresa.

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