La scienza non basta
senza coscienza

In questi tristi mesi di pandemia si è assistito, nel comune modo di parlare, ad un costante avvicinamento del termine «sicurezza» al termine «scienza». Tale avvicinamento ha finito per produrre una sorta di legame indissociabile che può essere così descritto: se si vuole parlare con rigore di «sicurezza» bisogna necessariamente parlare di «scienza»; se si vuole parlare di «scienza» non si può fare a meno di tirare in ballo la «sicurezza»: ogni altro riferimento risulterebbe infatti astratto, distante, così si continua a ripetere, dai «reali interessi e bisogni della gente». All’interno di una simile convivenza chi soffre di più è senza alcun dubbio la «scienza» che rischia di trasformarsi nella «mano (non) armata» di una dittatura del controllo che, in nome della salute pubblica, canalizza, ma così anche sfinisce, tutta l’intelligenza e la creatività proprie del sapere scientifico orientandole in direzione di quella «messa in sicurezza» che non a pochi inizia a creare qualche perplessità e un po’ di timore.

In altri tempi - o forse meglio: in un altro tempo, in un altro modo di vivere il tempo, di viverlo senza paura e angoscia e dunque anche con maggior distacco e lucidità - si preferiva accostare il termine «scienza» al termine «coscienza». È un punto sul quale tutti si sono trovati e continuano a trovarsi d’accordo: le decisioni umane dovrebbero sempre essere prese con «scienza e coscienza». Partiamo dalla prima. È bene ribadirlo con forza: per compiere scelte adeguate e feconde non basta essere in «buona fede», o essere «buone persone», o «essere animati dalle migliori intenzioni», bisogna anche imparare a riflettere leggendo e studiando.

A tale riguardo è lecito avere qualche sospetto nei confronti di quella famosa «dotta ignoranza» con la quale certi uomini svogliati e pigri cercano di nobilitare la loro tendenza al disimpegno. In effetti riflettere, esercitando il pensiero, non è affatto facile: bisogna aver pazienza, bisogna leggere e studiare, e soprattutto bisogna avere l’umiltà di confrontarsi con gli altri, con altri pensieri e con il pensiero degli altri, leggendo e interpretando argomentazioni del tutto diverse da quelle in cui ci si trova impegnati. Tutto ciò richiede tempo e umiltà. Non c’è scienza, e più in generale pensiero, senza ri-pensare e senza confronto con gli altri pensieri. Da questo punto di vista, di fronte a una mia affermazione o a quella di un altro bisognerebbe sempre avere l’umiltà (e l’intelligenza) di chiedersi: ma a partire da che cosa dico/dice questo e quest’altro, quali esperienze mi/lo hanno condotto a quel giudizio e non a quell’altro, a partire da quali premesse sono/è giunto a questa conclusione, quali pre-concetti hanno condizionato il mio/il suo concetto?

Ma poi c’è «la coscienza», c’è o ci dovrebbe essere anche la «coscienza». Quest’ultima non si identifica con la «scienza», o anche: la «scienza» non esaurisce mai il senso a cui la «coscienza» con insistenza allude. L’esperienza umana lo ha puntualmente confermato: non basta avere un sapere, fosse anche ben articolato e fondato, per giungere a delle conclusioni all’altezza di quell’abitare che si qualifica come «umano» proprio perché sa accogliere al proprio interno, oltre al sapere, anche emozioni, convinzioni, fedi, sogni, quel multi-verso di libertà e responsabilità che mal si adatta alle rigide leggi della matematica. La «coscienza» si muove all’interno di un orizzonte molto più ampio e drammatico di quello in cui opera la «scienza» di cui essa, per altro, non può mai illudersi di poter fare a meno; analogamente, la «scienza» non deve insuperbirsi a tal punto da rigettare nella pura illusione tutto ciò che non riesce a ricondurre all’interno delle proprie ipotesi e dei modelli di cui queste ipotesi sono ad un tempo causa ed effetto.

In verità ciò che è sorprendente è proprio il fatto che la «coscienza» non sia la «scienza» e viceversa (è questo lo spazio della libertà); ma forse ancor più sorprendente è che tale differenza rinvii a e attenda una cooperazione (è questo lo spazio della responsabilità) in assenza della quale qualsiasi giardino, perfino l’Eden, finisce per trasformarsi in una «orrida regione» (Isaia 45, 19). Ecco perché, scrivevo in un’altra occasione, è bene e fa bene non separare mai «scienza e coscienza», in modo che ognuna sorvegli e perfezioni l’altra, e insieme aiutino soprattutto ad evitare sia l’arroganza degli ignoranti che quella, molto più pericolosa, dei sapienti.

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