La speranza mira al cielo, ma cammina sulla terra

È la nuova parola d’ordine, trasformatasi quasi in un tormentone: bisogna ripartire, bisogna rimettere in moto i consumi e ricominciare a correre. Il giornalista stanco di parlare e soprattutto sparlare del Covid, l’imprenditore all’affannosa ricerca di nuovi contratti, il sacerdote che, quasi per contratto, si sente in dovere di «dire qualcosa di positivo», i cantanti che fanno di tutto per cavalcare l’euforia estiva e il periodo momentaneamente favorevole alle vendite, tutti sono impegnati nell’elogiare l’allegria e nel diffondere l’ottimismo. Dopo tanta sofferenza, come non essere d’accordo e non condividere simili atteggiamenti? Eppure, uno dei tratti più tragicamente dolorosi del male che talvolta ci affligge (la morte della persona cara, il tradimento di un amico, il fallimento di un’impresa in cui si era investito tanto, ecc., ecc., purtroppo) è proprio quello di privarci, a dispetto di ogni buona intenzione, della voglia stessa di ricominciare; inoltre, tali vicende hanno la penetrante forza di coinvolgere non solo il nostro futuro ma anche il nostro passato: allora non è valsa la pena, è stato solo tempo perduto, se la storia è finita così male allora è stata solo tempo perduto, dopo un esito così tragico non conviene impegnarsi in alcuna altra storia.

Quello che alcune persone hanno patito e continuano a patire in questi ultimi due anni sembra così confermare, ancora una volta, la triste constatazione contenuta nel libro della Sapienza: «siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo nati […] la nostra esistenza è il passare di un’ombra» (Sp, 2, 2-5). Contro ogni facile e banale euforia del momento, non si può dunque fare a meno di riconoscere che il male più profondo non limita mai la propria azione al presente in cui ci colpisce ma si diffonde sempre al futuro e soprattutto al passato della nostra vita, arrivando così quasi ad assumere la forma del «tutto»; a tale riguardo non a caso si è giustamente parlato della «fecondità del male».

Si può fare qualcosa per contrastare una simile tendenza che rischiamo di concepire e vivere come inevitabile? Mi ripeto, ma mi permetto di insistere sulla seguente ipotesi: Camus, ne La peste, afferma che in certe situazioni «Bisogna cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare del bene»; ma forse, proprio per ricominciare, per riuscire ad andare in qualche modo avanti, bisogna soprattutto sapersi guardare indietro e riconoscere, con sincerità e serietà, il bene ricevuto, bisogna sapere e volere riconoscere la luce che, nonostante tutto e tutti, nonostante perfino il mio attuale stato d’animo, continua a provenire dal bene, e non tanto da quello che magari abbiamo compiuto ma da quello che quasi certamente abbiamo ricevuto. È questo un punto essenziale spesso sottovalutato nei vari ragionamenti sul dopo-epidemia: è dal bene ricevuto, molto di più che da quello che abbiamo compiuto o che ci proponiamo di compiere, che può venire la forza per opporsi all’invadenza del «tutto» di cui più sopra si parlava. Certo, è evidente che la memoria del bene ricevuto non può nulla contro il male che è stato e contro la disperazione in cui ora mi trovo, ma può molto, così almeno a me sembra, contro la tendenza di quest’ultima a occupare tutta la scena in cui mi trovo e in cui dovrò continuare a vivere; a tale riguardo non a caso si è giustamente parlato della «fecondità del bene», fecondità forte come quella del male e spesso molto di più.

All’interno di questo quadro è più facile comprendere una distinzione terminologica fondamentale in assenza della quale molti discorsi sul futuro finiscono per rivelare un sapore dolciastro del tutto stucchevole. Si tratta di distinguere l’ottimismo dalla speranza; il primo trova il suo fondamento nella volontà, nella mia volontà, e di conseguenza esso si proietta sempre e solo verso il futuro (non pensarci, vai avanti e non preoccuparti, «andrà tutto bene»); la speranza, invece, germoglia dalla memoria, ed essa nel presente guarda al futuro a partire dalla concretezza del passato di un «è stato»: è stato, sono stato certamente voluto, concretamente voluto bene, e nessuna tenebra, neppure quella in cui ora mi trovo, potrà mai impedire che io lo sia stato. Non c’è nessuna garanzia che «andrà tutto bene», ma poiché sono stato voluto bene, poiché sono stato incontrato in qualche modo dal bene, poiché ho conosciuto concretamente nella mia vita il bene, ecco che allora la speranza in un tempo migliore non è più semplicemente un’illusione, o il frutto di una volontà chiamata ad essere titanica.

La speranza non è l’ottimismo; essa guarda con insistenza al cielo ma sempre camminando sulla terra, come ha sempre insegnato la vita dei Santi, e in particolare di Sant’Alessandro, di cui oggi Bergamo celebra il ricordo. L’azione verso il futuro che la speranza genera nel presente ha sempre il proprio fondamento nella fedeltà al concreto passato di un «è stato». Può risultare paradossale, ma la nostra più profonda responsabilità non riguarda immediatamente il futuro che sarà ma il passato che è stato. Certo, non bisogna cedere al male, e soprattutto bisogna ricominciare cercando di non compiere il male, ma ancora prima non bisogna tradire il bene, quello ricevuto che tuttavia attende sempre, e ogni volta da capo, di essere accolto.

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