Le primavere arabe:
10 anni di un sogno fallito

Dieci anni fa, il 17 dicembre del 2010, un venditore ambulante di nome Muhamed Bouazizi si diede fuoco, davanti alla sede della polizia della piccola città tunisina di Sidi Bouzid, per protestare contro le continue estorsioni dei pubblici ufficiali. Quella morte atroce è considerata il passo d’avvio delle cosiddette «Primavere arabe». Ovvero, della stagione di proteste popolari e rivolgimenti che sconvolsero l’intero Medio Oriente ma in particolare Tunisia, Egitto, Siria, Bahrein e Yemen. La richiesta di democrazia e giustizia sociale per un certo periodo sembrò davvero farsi strada e alcuni autocrati, dal tunisino Ben Alì all’egiziano Mubarak, dal libico Gheddafi allo yemenita Alì Abdallah Saleh, furono spazzati dall’onda del malcontento.

Oggi, però, tutti sono concordi nel definire fallita quell’esperienza. E non si tratta di un giudizio politico o morale ma di una valutazione concreta. Con la pur notevole eccezione della Tunisia, tutti gli altri Paesi hanno fatto significativi passi indietro quanto a diritti civili, libertà di parola, trasparenza del processo elettorale. Il livello del benessere economico, spesso già basso, è calato ovunque, in qualche caso (Siria, Yemen) è crollato. La disoccupazione giovanile è aumentata. La libertà di stampa è oggi più limitata di allora, il numero dei profughi e dei rifugiati è cresciuto a dismisura, la corruzione si è fatta ancora più rampante. Per non parlare delle guerre atroci scoppiate in Paesi come lo Yemen, l’Iraq e la Siria. Curiosamente ma non troppo, l’unico dato positivo è la rappresentanza sociale e politica delle donne, allargatasi ovunque ma soprattutto in Tunisia, Bahrein e Siria.

Tantissime speranze, pochissimi risultati. Perché? Al quesito si offrono di solito risposte univoche. Colpa dell’integralismo islamico, dell’Occidente pavido e indeciso, della reazione dei militari e dei tiranni e così via. La realtà è più sfumata e lo era fin dall’inizio. Quando cominciarono a manifestarsi, le Primavere fecero leva su una serie di condizioni comuni all’intero Medio Oriente. La presenza di una massa di giovani (gli under 30 sono ormai poco meno del 40% della popolazione totale della regione) sotto-occupati o disoccupati (in Tunisia al 35%, in Egitto al 33%, in Libia al 42%), quindi arrabbiati e frustrati. Un mercato del lavoro affidato all’influenza della famiglia o del clan. La corruzione endemica. L’inefficienza delle amministrazioni pubbliche. La presenza ossessiva delle agenzie di sicurezza. La crescente influenza delle visioni più tradizionaliste dell’islam. Nel complesso, una stagnazione ben rappresentata da leader inchiodati alle poltrone per decenni. Questi tratti comuni spiegano perché la protesta abbia potuto diffondersi da un capo all’altro della regione in pochissimo tempo e in Paesi assai diversi tra loro. Le diversità maturate nei secoli, però, non venivano meno.

La Libia si ribellava a Gheddafi come l’Egitto a Mubarak e la Tunisia a Ben Alì, ma non per questo aveva smesso di essere tribale. L’Egitto, con una popolazione molto più omogenea, era però infiltrato a fondo dai Fratelli musulmani e dalla loro capacità di usare la solidarietà sociale come strumento di reclutamento e propaganda. Il Bahrein soffriva la questione religiosa per cui, in un Paese a larga maggioranza di musulmani sciiti, era la minoranza sunnita a dominare. E così via.

Su tutto questo si sono inserite le ambizioni e gli interessi delle diverse potenze, da quelle globali a quelle regionali. La Primavera siriana del 2011 fu attaccata dalla reazione di Bashar al-Assad ma ancor più minata all’interno dal sostegno che i Paesi del Golfo Persico cominciarono fin da subito a fornire ai gruppi del jihadismo islamista. Gli Usa, che avevano manifestato più di una tolleranza nei confronti dell’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto, applaudirono invece la repressione della Primavera del Bahrein da parte dei carri armati sauditi, perché temevano la collera degli sciiti locali appoggiati dal vicino Iran.

Alla fine sono stati in tanti a prendersi una sanguinosa rivincita sugli ideali dei giovani e delle donne del Medio Oriente che scesero in piazza nel 2010-2011. Prima fra tutti la complessità di una regione a cui troppi, soprattutto da fuori, guardano come a un tutto unico, come a una lavagna uniforme su cui si può scrivere il racconto di volta in volta più conveniente.

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