L’equilibrio
dei poteri
alterato
dai partiti

Sul toto-Quirinale regna sovrana l’incertezza. Come sempre, più di sempre. Manca anche la sola base d’intesa che ha costituito in passato un utile viatico all’elezione del presidente della Repubblica. Manca in più un regista capace, se non di condurre il gioco, per lo meno di distribuire le carte. Mancano inoltre leader di partito che siano in grado di assicurare la tenuta del proprio gruppo di delegati, al momento del voto, in modo da non far vanificare l’eventuale accordo da parte della schiera di franchi tiratori che puntualmente si mettono al lavoro in ogni votazione del presidente della Repubblica.

A rendere unico nella storia repubblicana il voto del 24 gennaio è comunque un altro dato. È il retropensiero inconfessato dei partiti che con la salita di Draghi al Colle più alto di Roma si celebri il passaggio dello scettro del potere dal Parlamento al capo dello Stato. Se nominalmente il presidente della Repubblica resterebbe il semplice garante dell’unità della nazione, di fatto concentrerebbe su di sé uno straordinario, inedito potere ci sono tutte le condizioni perché finisca con l’esercitare di fatto una sorta di commissariamento del presidente del Consiglio.

L’attuale stallo sulla candidatura alla suprema carica dello Stato tradisce proprio questo ingorgo istituzionale. Da un lato, i partiti non possono che prendere atto della preminenza del «tecnico» Draghi.

Dall’altro, sanno che un suo insediamento al Quirinale comporterebbe una loro (forse definitiva) diminutio capitis, ossia una loro sostanziale estromissione dal cerchio magico del potere. Tutti sanno infatti che Draghi è intenzionato, se eletto presidente della Repubblica, ad affidare la guida del governo a un altro tecnico di sua fiducia e a lui devoto, per non veder vanificato il lavoro finora svolto sul terreno dell’emergenza sanitaria ed economica.

«Nec tecum nec sine te vivere possum». Parafrasando Ovidio, potremmo dire che i partiti vivono nella stridente contraddizione di non poter vivere con Draghi né senza Draghi. Con Draghi sono consapevoli che si auto-condannano alla decapitazione, senza Draghi che si limitano solo a rinviarla al momento in cui l’elettorato emetterà la sua inesorabile sentenza sul disastro procurato.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso, verrebbe da dire. E non si andrebbe lontani dal vero. L’ampiamento dei poteri del presidente della Repubblica, cui da qualche tempo si assiste non è casuale. Quanto si è verificato in questi anni nell’equilibrio dei poteri è sotto gli occhi di tutti. La crisi di rappresentanza dei partiti ha spostato sul Colle il centro del potere. Tutto è cominciato con la presidenza Scalfaro. È stato allora che si è inaugurata la pratica di conferire l’incarico di formare un nuovo governo al un «tecnico»: l’ex direttore della Banca d’Italia Lamberto Dini. Ad oggi si contano ben quattro premier pescati fuori dal Parlamento (Monti, Renzi, Conte, Draghi) e due (Monti e Draghi) quelli chiamati a Palazzo Chigi direttamente dal presidente della Repubblica.

Per questo motivo, l’esito della presente battaglia per l’elezione del successore di Mattarella ci dirà molto sul destino della nostra Repubblica, se cioè si consumerà il passaggio verso uno strisciante semi-presidenzialismo o se viceversa si celebrerà il ritorno in grande stile dei partiti sulla plancia di comando, sempre ammesso e non concesso che siano ancora in grado di esercitare il ruolo che reclamano.

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