L’inchiesta su Trump
è campagna elettorale

Scrivono i giornali Usa che 205 deputati si sono già espressi a favore di un’inchiesta su Donald Trump per arrivare alla procedura di impeachment. Se è vero, essendo richiesta una maggioranza di 218 voti, la procedura partirà di sicuro. Ma si fermerà al Senato, l’organo preposto al giudizio finale (impeachment sì o no), dove i repubblicani hanno 53 seggi su 100. Giusto saperlo fin da ora, perché l’ultimo «scandalo Trump» c’entra poco con il funzionamento della democrazia Usa e molto, invece, con la campagna elettorale per la presidenza che si concluderà nel 2020.

L’oggetto dell’attuale polemica è la telefonata che il 25 luglio scorso il presidente americano fece al collega ucraino Volodimir Zelens’kij, l’attore che in aprile aveva sbaragliato il predecessore Petro Poroshenko raccogliendo il 73% delle preferenze. Trump ha permesso la diffusione del testo del colloquio, il cui passo fondamentale è questo: «Fammi un favore. Si parla molto del figlio di Biden, che Biden fermò l’indagine e molte persone vogliono sapere, così tutto quello che puoi fare con il procuratore generale sarà grandioso. Biden è andato in giro a dire che aveva bloccato l’indagine, quindi se puoi darci un’occhiata. A me sembra orribile».

Trump allude a un’indagine a carico di Hunter Biden, figlio di Joe Biden (ex vice di Barack Obama), che nel 2014, pochi mesi dopo la rivolta di Maidan, fu assunto da un’importante compagnia petrolifera ucraina, Burisma, come responsabile dell’ufficio legale al discreto salario di 50 mila euro al mese. Con lui entrò nella compagnia un altro personaggio in qualche modo legato alla presidenza Obama, ovvero Devon Archer, ex consigliere del segretario di Stato John Kerry.

Hunter Biden ha cessato il lavoro presso Burisma all’inizio di quest’anno. Ma il punto è un altro: le fonti ufficiali ucraine negano che sia mai stata aperta un’indagine su di lui. I democratici quindi sostengono che Trump, con quella telefonata, voleva che fosse Zelens’kij ad aprire un’indagine, o in qualche modo raccogliesse e gli passasse materiale compromettente su Biden padre e figlio. E che per convincerlo, o forzarlo, avrebbe poco dopo sospeso un pacchetto di aiuti all’Ucraina da 500 milioni di dollari, in realtà poi ripristinato in settembre. Il tutto perché Biden padre è, oggi, il principale candidato dei democratici per le presidenziali del 2020.

Che dire? Certo, la telefonata di Trump a Zelens’kij non è un modello di finezza e tantomeno di correttezza politica. È chiaro che Trump spera di raccogliere da Zelens’kij una manciata di fango da usare contro il rivale. Nel complesso, la cosa fa un po’ schifo. Non pare luminosa, peraltro, nemmeno la posizione dei due Biden. Appena dopo la rivoluzione di Maidan (2014) e con la guerra nel Donbass, un giovane avvocato di New York che non ha alcuna esperienza dell’Ucraina accetta un incarico di vertice in una società del settore energetico (dominato dagli oligarchi) senza chiedersi se c’entri il fatto che il suo papà non solo è vicepresidente degli Usa ma è anche l’uomo di punta dell’amministrazione americana nei rapporti con l’Ucraina stessa? E sostiene, anche adesso, di non averne mai parlato con l’illustre padre, se non una sola volta e di sfuggita?

La vera difficoltà, per i democratici, sarà dimostrare che Trump ha «violato la legge», come ripete Nancy Pelosi, presidente della Camera che promuoverà l’impeachment. Ma se a Trump interessava il fango, ai democratici preme solo avere un secondo Russiagate da agitare fino al voto dell’anno prossimo. Ai non americani come noi resta un’impressione: se alla Casa Bianca e dintorni le grandi questioni internazionali vengono affrontate così, abbiamo bisogno di tutta la fortuna possibile.

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