L’inflazione in aumento
Il collo di bottiglia

L’inflazione sta rialzando la testa? I forti aumenti dell’energia, delle materie prime e di altri beni di consumo, soprattutto elettronici, lo fanno temere. Mentre le analisi delle istituzioni economiche italiane e sovrannazionali sono più rassicuranti. Il Governatore Visco li definisce aumenti transitori, la Bce non ha modificato la sua politica monetaria perché ritiene che si tratti di un evento episodico e non di un processo strutturale. Il Fondo monetario internazionale è un po’ più cauto e, anche se non prevede un forte rialzo dei prezzi nei prossimi anni, esprime qualche preoccupazione al riguardo. Nel suo World economic outlook di lunedì, si trova una stima della variazione dei prezzi pari all’1,6% per il 2021 e all’1,8% negli anni successivi fino al 2026. Un dato veramente molto basso, che tecnicamente non potrebbe neanche definirsi inflazione. Ancora una volta c’è una divaricazione fra la percezione delle persone comuni e le rilevazioni degli enti di ricerca? È possibile, ma devo dire che sono portato a credere meno alle percezioni individuali che alle analisi rigorose su vasta scala. Anche solo perché da quanto accade intorno a un singolo non si può estrapolare una condizione globale.

Il Fondo monetario valuta che l’aumento dell’inflazione rifletta uno sfasamento fra la domanda e l’offerta di beni indotto dalla pandemia. Il Covid, infatti, ha creato quello che gli economisti di Washington definiscono un «collo di bottiglia» fra produzione e consumo: la forte contrazione della domanda nel 2020 ha portato molte aziende a tagliare gli ordini ai fornitori. Mentre il recupero prendeva piede nel 2021, alcuni produttori si sono trovati impreparati e incapaci di aumentare rapidamente l’offerta. Per esempio, la produzione di microchip rimane in arretrato rispetto alla domanda e la distribuzione mondiale dei container per effettuare le spedizioni di merci finite e di prodotti intermedi è stata profondamente distorta durante la pandemia, lasciando molte navi al di fuori dei consueti itinerari. Anche nel settore dell’energia si è verificato qualcosa di simile: visto il rallentamento dell’attività produttiva, molti Paesi hanno lasciato che le scorte si riducessero e quando è arrivata la ripresa tutti si sono affrettati e richiedere maggiori quantità di petrolio e di gas. È evidente che questo sfasamento fra domanda e disponibilità di beni genera un aumento dei prezzi. Occorrerà qualche tempo, ma la situazione si normalizzerà, le catene di produzione saranno di nuovo sincronizzate e la penuria di beni verrà meno; le scorte energetiche saranno ripristinate e a questo punto i prezzi ritorneranno sui livelli ante pandemia.

Tutto bene dunque? Forse sì, ma restano due grandi punti di domanda. Il primo è se davvero il picco di richiesta di energia si riassorbirà, visto che la ripresa produttiva nel mondo appare molto solida. E poi su questa variabile sono sempre in agguato problematiche di natura geopolitica (tensioni e conflitti fra Paesi che coinvolgano i produttori) che sono per loro natura di difficile previsione.

L’altra incognita è l’ingente immissione di liquidità di anni di politica monetaria espansiva. La moneta, si sa, è il carburante ideale per le fiammate inflazionistiche e in questi anni se ne è gettata tanta. Ma era un fuocherello timido timido, che non ha dato alcun problema. Al punto che le banche centrali di tutto il mondo cercavano di innescare un tasso di crescita dei prezzi più elevato. Ora però c’è anche tanta domanda derivante dalla ripresa: il comburente dell’inflazione. Una miscela potenzialmente esplosiva su cui è bene che le autorità monetarie vigilino con grande attenzione.

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