L’Italia in Cina
e i nuovi muri

Un hotel a Pechino o a Chengdu nel Sichuan, nel Sudovest della Cina, è un ottimo punto di osservazione. Si vedono arrivare macchine di lusso, per lo più tedesche, con ospiti che sembrano strappati ieri al lavoro dei campi, ed ora rivestiti a nuovo. L’improvvisa ricchezza per chi è sempre stato povero è da ostentare. Se le nostre imprese devono rispettare i diritti sindacali, i costi di smaltimento, l’osservanza, non senza oneri, delle leggi sul rispetto ambientale, un carico fiscale rilevante, una miriade di codicilli che assediano l’amministrazione in ogni suo passo e dall’altra parte si va a ruota libera senza un vincolo che sia uno se non quello di produrre a più basso costo possibile è evidente che vi è sproporzione.

Ora la situazione sta migliorando, il rispetto ambientale è diventato priorità anche per i cinesi. A Pechino, a Xi An e altre città non vi è ciclomotore che non sia elettrico. Le aziende cercano di investire in energie alternative e vogliono tecnologia occidentale per sostituire i motori diesel con quelli a propulsione non inquinante. Si fanno passi avanti anche nella raccolta differenziata dei rifiuti. Siamo agli inizi ma la strada è tracciata, la Cina vuol diventare un Paese avanzato e lasciare alle sue spalle le brutture di una crescita tanto selvaggia quanto efficace nella penetrazione dei mercati esteri.

Intanto in Occidente restano le macerie. Non sono silenti. Hanno un costo sociale che si esprime in disoccupazione, bassa crescita e malessere. Una società delusa che ha creduto nella modernizzazione, nell’apertura delle frontiere, nel libero commercio, nella potenza trasversale della rete che unisce il mondo. Ed ha invece scoperto di essere diventata povera, mentre altri diventavano sempre più ricchi. Sperava nell’unione e ha trovato la divisione. I 5 Stelle al governo con la Lega ne sono la prova. Senza la forza dirompente della concorrenza cinese sul mercato difficile pensare ad un voto di protesta di questa portata. I voti cosiddetti populisti si sono espressi al meglio in Italia, un Paese a vocazione manifatturiera che più di altri ha pagato i costi della globalizzazione commerciale. Ora il ministro Di Maio, che di questa protesta popolare è l’alfiere, è in visita in Cina. È andato a Chengdu, il terminale della via della seta. Vuole incrementare l’esportazione dei prodotti agricoli e alimentari, soprattutto del Sud Italia, nel Paese del tè e del riso. Cioè vuol vendere agli arricchiti, che se lo possono permettere, una qualità della vita che indubbiamente in Cina è sconosciuta. Tanto per citarne una, l’olio di cui la cucina cinese fa abbondante uso, viene in parte ricavato dalla lavorazione dei resti alimentari. Gli scarti sono talmente tanti da rendere conveniente l’operazione.

Quindi i margini per l’agroalimentare restano alti. Ma per le imprese ad alta tecnologia, siamo sicuri che possano operare liberamente sul mercato? Di recente una ditta tedesca di arredamento di ufficio si è trovata nell’impossibilità di sostenere la concorrenza locale: le imprese del luogo venivano surrettiziamente finanziate dallo Stato. I giganti cinesi vengono in Europa e comprano sul mercato libero, gli europei vanno in Cina e si trovano i muri di silenzio davanti. Investire in Cina è quasi impossibile. L’obiettivo di Pechino è mantenere le imprese in mani cinesi. Sì alla tecnologia finché si può copiare, ma niente incursioni nell’azionariato. Ed è per questo che i tedeschi restano freddi sulla via della seta. Finché non vi sarà chiarezza sulla reciprocità non è pensabile un’espansione a senso unico. Speriamo che al governo italiano questo punto sia chiaro. Se non lo fosse vorrebbe dire condannare il sistema produttivo italiano alla marginalità per vendere patate e pomodori.

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