Manovra rimandata
all’esame europeo

Quella della Commissione europea non è una promozione ma non è neanche una bocciatura. L’Italia e la sua manovra economica 2020 sono state piuttosto rimandate a primavera, a maggio, quando Bruxelles darà un giudizio definitivo sulle leggi di Bilancio non solo nostra ma anche di altri Paesi sotto osservazione come la Francia, il Belgio, la Spagna, tutti quelli insomma con alti debiti pubblici. Non si ripeterà dunque il braccio di ferro che tormentò la vita del governo giallo-verde, quello che aveva cominciato spavaldamente sbandierando un deficit oltremisura (2,4%) e dopo tante roboanti dichiarazioni di guerra agli «eurocrati», dovette ripiegare disciplinatamente verso limiti accettabili da Palais Berlaymont (2,04%).

No, quest’anno Roma non si è fatta dettare la manovra ma ha concordato preventivamente cifra per cifra con le autorità comunitarie: il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha lavorato di conserva col suo vecchio amico Pierre Moscovici confermando una consuetudine avviata tra il 2014 e il 2018 quando l’attuale responsabile di via XX Settembre era presidente della Commissione Affari economici del Parlamento europeo. Con il commissario in scadenza agli Affari Economici si è stabilito che il deficit aumenterà dello 0,6% usufruendo di una maggiore flessibilità dello 0,2% e di un plus consentito dalle norme di 0,3%. Rimane un buco dell’1% ma si troverà il modo di coprirlo.

Entro questo perimetro la manovra da trenta miliardi, di cui ben ventitré sono destinati ad impedire che l’Iva aumenti, potrà essere modificata dal Parlamento. Che non aspetta altro, soprattutto la maggioranza che ha presentato migliaia di emendamenti, tanti, troppi, al punto da far pensare ad una mezza sconfessione del testo governativo. Che invece, dicevamo, ha potuto godere di un’apertura di credito «politica» da parte della Commissione, il credito che fu negato all’esecutivo in cui la faceva da padrona la Lega di Matteo Salvini apertamente euro-critica e decisa a rivoltare i tavoli di Bruxelles. Poi le cose sono andate come sono andate e adesso c’è Gualtieri, al posto del professor Giovanni Tria, a fare il guardiano dei conti con le spalle tanto larghe da poter sopportare le contestazioni che arriveranno soprattutto sulle regole del debito che abbiamo sforato sia nel 2018 che nel 2019 e che ci ripromettiamo di sforare anche nel 2020. Ma in primavera il giudizio definitivo verrà dato dal neocommissario agli Affari economici Paolo Gentiloni che prende il posto di Moscovici e, paradossalmente, dovrà esprimersi anche sui conti pubblici italiani che risalgono a quando c’era il suo governo.

Gentiloni dovrà vedersela con il «falco» Dombrovschis che sicuramente cercherà di forzargli la mano per «punirci», ma dovrà fare i conti con un clima che a Bruxelles sembra un poco cambiato, con la politica dell’austerità che lentamente va ripiegando e i fautori della crescita e degli investimenti anche in deficit che prendono coraggio e si fanno avanti. Angela Merkel, al crepuscolo del suo potere, non è più l’arcigna signora che imponeva di «fare i compiti a casa» a noi, ai greci, ai portoghesi e agli spagnoli.

Il compromesso va molto più di moda ora che l’economia del Continente arranca, che la Germania frena e la Francia si ritrova un debito tanto alto. È pur vero che la revisione del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) che tanto sta facendo discutere a Roma sembra improntata ad una certa severità d’altri tempi ma non è detto che conquisti l’unanimità tra gli Stati richiesta per i Trattati: dovrà infatti essere votato da tutti i 19 Parlamenti della zona euro.

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