Milano olimpica
nell’Italia col freno

Milano ha un «forte governo, un debito in riduzione e un’ottima salute sotto il profilo socio-economico». Sono parole dell’agenzia di rating Fitch, quella per intenderci che monitora il debito pubblico italiano e dà il giudizio di affidabilità. Dall’Expo del 2015 Milano gode di buoni risultati sul piano del governo cittadino e può contare su una maggiore efficienza dei processi amministrativi. Questo crea una maggiore autostima e lo si vede nella richiesta della città di essere in prima fila per i giochi olimpici invernali del 2026. Si candida con Cortina ma è il brand di Milano che deve affermarsi.

La città si impegna, lavora e vuole che le vengano riconosciuti i meriti. A maggior ragione quando tutti i pregi che la stampa e le istituzioni internazionali le attestano vengono di colpo annullati dal solo fatto di dipendere dallo Stato. Milano ottiene i finanziamenti dal bilancio nazionale e non è in grado di gestire autonomamente le proprie risorse. Ecco il punto debole evidenziato da Fitch. Se l’ente erogatore è sommerso dai debiti va da sé che anche Milano ne possa risentire. Da qui il giudizio finale BBB- cioè con prospettive negative nel tempo. Morale si lavora, si produce ma non si riesce a capitalizzare i propri successi in termini di affidabilità finanziaria perché alla locomotiva sono attaccati vagoni che ogni giorno risultano sempre più pesanti da trainare.

Che è poi lo specchio d’Italia. Dice l’assessore Tasca del Comune di Milano: la città «corre», guadagna in attrattività internazionale. Nella lontana Cina chi ha modo di parlare con la gente si accorge subito che è Milano l’Italia che interessa. Quella che produce, che esporta, che fa i numeri. Un Paese con più di un terzo del territorio in letargico sottosviluppo e ad alta densità criminale non avrebbe mai potuto assurgere a potenza industriale. Ma l’Italia lo è. È membro del G7. Attorno a Milano si coagula la parte sana, quella che trova nella laboriosità della capitale lombarda il modello da seguire. Queste cose si sanno ma anziché a livello nazionale darsi da fare per replicare in altre città le ragioni del successo meneghino ci si lamenta e si cerca nello Stato il santo protettore ed erogatore dell’agognata sinecura. Dare sussidi a chi non fa nulla per meritarli di certo porta voti ma soprattutto abitua all’idea dell’irresponsabilità. È questo il motivo per il quale l’economia sociale di mercato si è trasformata in economia assistenziale.

I primi anni della ricostruzione nazionale dopo la guerra erano all’insegna dell’emigrazione prima in Germania poi a Torino e nel Nord. Ma ad un certo punto si è pensato di finanziare il Sud con investimenti a pioggia e con sussidi. Dalla scoppio della crisi nel 2008 l’Italia non è riuscita a recuperare il terreno perduto. Del resto si capisce anche. La produttività negli ultimi vent’anni è rimasta ferma mentre negli altri Paesi è cresciuta. Ora nell’ultimo decennio l’impiego del lavoro e del capitale è risultato competitivo, ciò che manca è la produttività multifattoriale: la meritocrazia, la digitalizzazione, l’efficienza della pubblica amministrazione. Qui ci si deve concentrare. Se i fondi scarseggiano ha senso investire dove questi hanno una resa nel tempo. La produttività crea opportunità di lavoro, permette di espandersi all’estero. Se invece si preferisce l’assistenzialismo si tolgono risorse a chi ne ha bisogno per essere competitivo. Va aiutato chi è in grado di stare sulle proprie gambe. Solo un’impresa efficiente può produrre posti di lavoro. Altrimenti si finisce come Milano, lodata da tutti ma sempre con l’acqua alla gola.

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