Nelle nomine Ue
la novità è il genere

I capi di Governo dei Paesi Ue hanno trovato l’accordo sui nomi dei vertici comunitari dopo le elezioni del Parlamento europeo. L’esito del negoziato ha suscitato commenti positivi, concentrati però - significativamente - sul genere (femminile) delle personalità designate alla guida di Commissione e Bce. Mi pare davvero il solo elemento con cui (provare a) consolarsi. Per il resto, si staglia una linea smaccatamente continuista che minaccia di proseguire il declino dell’Unione europea.

Il Consiglio Europeo ha chiuso all’unanimità l’accordo sulla proposta della Presidenza della Commissione. E tuttavia l’elezione finale del presidente compete al Parlamento europeo, di fronte al quale la Commissione è responsabile collettivamente. L’unanimità sembra una buona notizia. Essa è però il frutto della convergenza di veti, interessi, spinte al ribasso, più che un accordo su una linea di rilancio, di cui non c’è l’ombra.

L’accordo, per ottenere la maggioranza in seno al Parlamento europeo, doveva estendersi oltre i popolari e i socialisti, i due maggiori partiti, includendo liberaldemocratici e/o verdi. Questi ultimi, però, visti gli esiti del negoziato, si sono già saggiamente sfilati. A metà luglio, la presidente proposta, la Von der Leyen dovrà presentarsi di fronte al Parlamento europeo e discutere la linea programmatica. Il nome della ministra tedesca Von der Leyen, vicinissima alla Merkel, è come uscito dal cilindro. Non era uno dei nomi che i partiti europei avevano avanzato in vista delle elezioni. Sarebbe stato indigeribile. È una soluzione di compromesso intergovernativo, forse inevitabile, dato l’esito delle elezioni europee, ma il profilo prescelto desta perplessità. La scelta caduta su una ministra, oltre tutto di stirpe nobile, dei Governi tedeschi presieduti dalla Merkel pare fatta apposta per lanciare il messaggio di un’Ue ostaggio della linea tedesca, o al più, della spartizione franco-tedesca, in esibita continuità con l’indirizzo di rigore finanziario, privo di adeguate correzioni.

Se a questo aggiungiamo che la Lagarde, designata al vertice della Bce, già direttrice del Fondo Monetario Internazionale, se l’è cavata con una disinvolta autocritica sulla condotta della sua istituzione nella crisi greca, il quadro è completo. Se alla vigilia delle elezioni europee, di fronte allo spauracchio dei sovranisti, le forze cosiddette sistemiche avevano retoricamente rievocato il sogno dei padri fondatori europei ed elargito promesse di rinnovamento, ora, è proprio il caso di dirlo, «passata la festa, gabbatu lu santu», e i Governi si apprestano ad abortire ogni attesa di cambiamento, trovando proprio su questo l’accordo. Lo scenario per l’Ue è tra i peggiori: il consolidamento di una linea continuista che ha causato uno scollamento popolare noto e vasto. Ben più delle forze sovraniste, sempre in minoranza, è l’assenza di coraggio e di visione dei partiti sistemici a impressionare.

È il Ppe il vero freno interno dell’Ue federale, con le sue scelte opache alla guida della Commissione (da Barroso in poi). Davvero si pensa che questa soluzione rilancerà profilo e attrattiva dell’Ue? Si ha l’impressione che la carta della simpatia di genere sia il risibile appiglio per un’operazione di immagine che le nomine non permettono. E il guaio è che il Governo italiano è stato determinante per questo esito: ha affossato la soluzione Timmermans, amico dell’Italia e sostenitore di un riequilibrio del rapporto tra disciplina finanziaria e protezione sociale, perché socialista; e ha dato il suo assenso - sotto ricatto? - a una posizione che esprime quanto Lega e M5S hanno sempre coloritamente criticato. Il panorama è desolante e l’atmosfera è di tramonto, seppur a tinta rosa. Tocca sperare nell’imprevisto o in un colpo d’ala del Parlamento europeo.

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