Ora bisogna saper
spendere i soldi

«Si è trattato di un vertice straordinario anche in termini di complessità». Accolto da un lungo applauso della maggioranza, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è arrivato in Senato come Giulio Cesare di ritorno dalle Gallie per riferire sull’accordo raggiunto a Bruxelles, ma soprattutto per raccogliere i frutti di un innegabile successo in termini di consenso. «L’Europa è stata all’altezza della sua storia, della sua missione e del suo destino», ha detto con parole altisonanti nell’aula di Palazzo Madama. E in effetti persino il suo avversario politico Matteo Salvini ha dovuto riconoscere che si tratta di un tesoretto provvidenziale per il nostro Paese (anche se naturalmente non è d’accordo con molte cose, lo giudica «strano», a cominciare da tempi e vincoli dell’accordo, ma fa parte del gioco politico e in fondo ha addirittura dichiarato di votare l’eventuale riduzione dell’Iva).

Il governo può contare su una cifra a fondo perduto pari a quattro o cinque manovre economiche, per non parlare del denaro a prestito. Una cifra enorme, una manna insperata che peraltro ci fa dire che l’Europa c’è, dopo le tante titubanze e le tante gaffes, dalla Lagarde alla Von der Leyen, pronunciate all’inizio dell’epidemia in Italia a proposito degli aiuti.

«Il governo si assume la responsabilità di realizzare il suo piano di riforme con lungimiranza e impegno», assicura il premier. E naturalmente arriva anche l’apertura al confronto con tutte le forze presenti in Parlamento. Il successo di Conte, sempre più «avvocato del popolo», avrà certamente ripercussioni sul suo consenso, tanto è vero che già si parla di un suo partito o addirittura della guida politica dei Cinque Stelle, il movimento che lo aveva strappato alla carriera accademica e forense per traghettarlo a Palazzo Chigi. Il paradosso (ma ai nostri giorni non è una novità) è che un tecnico che è stato espressione di un partito euroscettico sia diventato il campione riconosciuto dell’europeismo. Succede.

La sua abilità in sede negoziale a Bruxelles è ormai acclarata: l’Italia era il Paese più debole finanziariamente e il più colpito dalla pandemia, la sua posizione di leader più indebitato era molto fragile, tanto è vero che è diventato il bersaglio diretto dei Paesi cosiddetti «frugali». Ma eravamo anche i più bisognosi del Recovery Fund. Non potevamo permetterci di mancare un bersaglio simile. Se fossimo tornati a mani vuote o con un piatto di lenticchie probabilmente si sarebbe aperta una crisi. E invece il governo è più forte di prima e si parla addirittura di un suo allargamento ad altre forze politiche, come Forza Italia. Il premier ha presenziato a tutti gli incontri collaterali con la sua competenza di giurista, la sua ostinazione pugliese e la sua pazienza di avvocato. Naturalmente ha giocato l’accordo tra Francia e Germania, i veri protagonisti dell’intesa, il vero asse dell’Unione europea, ma diciamo che l’Italia ha saputo veleggiare egregiamente sul vento dell’accordo franco-tedesco.

Anche sul cosiddetto freno di emergenza voluto da Rutte & C. l’inquilino di Palazzo Chigi ha espresso la sua soddisfazione, essendo riuscito a mettere un vincolo sul vincolo: «Nessuno potrà porre il diritto di veto e non potrà avere durata superiore a tre mesi». Dettaglio non da poco. Il meccanismo dell’unanimità inoltre avrebbe imprigionato «lo strumento chiave della ripresa» in veti incrociati tra Paesi membri. Su questo punto l’Italia «ha tenuto la sua linea rossa».

Ora lo aspetta una parte non meno difficile dopo aver ottenuto i 209 miliardi di euro (si calcola una media di 500 euro per ogni italiano): dimostrare di saperli spendere attraverso un piano infrastrutturale basato sulla riconversione ambientale, digitale sulla ricerca e il sostegno alle imprese e alle famiglie.

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