Pnrr, partiti
a disagio
sulla marcia
di Draghi

È l’italiano ignoto il simbolo del nostro Paese. L’emergenza climatica, la crisi energetica, la rivoluzione digitale, l’innovazione tecnologica, la povertà del ceto medio, la disoccupazione, la pandemia e ora il caro prezzi sono le sue battaglie quotidiane. Piccole azioni anonime sconosciute ma che sommate fanno un Paese. Un Paese appunto in guerra. Un conflitto fatto di numeri che per il solo 2022 si quantificano così: 40 miliardi e 100 obiettivi. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per il 2022 prevede scadenze non eludibili.

Se gli obiettivi indicati non sono raggiunti il finanziamento non viene erogato. Per esempio entro giugno si devono avviare le procedure di assunzione per i tribunali amministrativi. Sempre nel primo semestre deve vedere la luce la riforma della scuola e soprattutto va portata a compimento la rimodulazione di carriera degli insegnanti. A seguire la delega per la riforma del codice dei pubblici appalti. Temi che hanno impegnato la politica per decenni senza mai essere risolti.

Per decenni le opere pubbliche sono rimaste ferme per elefantiasi normativa. Il che tradotto significa paura delle infiltrazioni della criminalità organizzata e quindi necessità di controlli su controlli sino a paralizzare l’opera. La legge per la concorrenza che tanti appetiti attira anch’essa va portata in porto. I conflitti di interesse sono figli di una cultura fatta di conoscenze, di relazioni sociali che premiano le rendite di posizione e avviliscono il merito. Introdurre una sana competizione con poche regole che vanno rispettate vuol dire agevolare gli investimenti e offrire ai giovani opportunità di affermazione imprenditoriale. Sono anni che se ne parla. Appunto. Adesso si deve fare. Ed è una piccola rivoluzione in un ambiente legato a compiacere il rapporto amicale anche a costo di sacrificare l’obiettivo. Si chiama, nelle discipline sociologiche, orientamento alla cosa. Vuol dire che posto il dilemma tra il soddisfare l’interlocutore oppure andare avanti dritti alla meta prefissata non si esita. La tecnica è semplice: se ne discute ampiamente prima con tutte le parti in causa e si assegna ad ognuna una sua quota di corresponsabilità ma poi varato il piano con l’assenso di tutti si procede senza se e senza ma. Mario Draghi viene da questa scuola ed è stato chiamato in ragione di questa cultura del fare. La politica ha storiche difficoltà a decidere. Scambia questa ineludibile necessità di governo per imposizione e tratteggia il decisore come presunto dittatore. Angela Merkel è stata al governo 16 anni e ha contraddistinto la sua azione politica con scelte coraggiose e impegnative. Ma nessuno si sogna di darle della dittatrice. E lo stesso può dirsi di Helmut Kohl al governo di Bonn dal 1982 al 1998. Decideva e poi alla fine del suo mandato si rimetteva agli elettori.

Forse questo spiega il disagio della politica italiana verso Mario Draghi. I 67 governi dal 1946 dimostrano che l’attività esecutiva è stata sacrificata. Un disequilibrio che nel tempo non si è mai risolto e che ora istanze esterne, i creditori dello Stato italiano, chiedono di sanare. Il Pnrr prevede investimenti per 191,5 miliardi di euro più 30,6 miliardi del fondo complementare e si articola in sei missioni. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, rivoluzione verde e transizione ecologica sono le prime due voci. Un impegno che parte da Roma ma poi va declinato nel Paese, comuni, regioni, amministrazioni periferiche dello Stato, imprese sino al singolo lavoratore. Uno sforzo gigantesco al confronto del quale il tatticismo della politica stride. Ci salverà l’italiano ignoto, quello che ha i sensori per l’emergenza e vede il pericolo. L’Europa chiede di fare e lui farà.

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