Politica del consenso
e il tempo di costruire

La vera emergenza da affrontare oggi è il superamento della «cultura dell’emergenza». Ciò non vale soltanto per l’attuale, delicatissima, situazione sanitaria ed economica, bensì investe complessivamente le attitudini – si potrebbe dire, la cultura civile – del nostro Paese e dei suoi cittadini. Lo «stellone», simbolo di una dimensione mentale che pone la fortuna come risolutore delle vicende umane, è insieme elemento di stimolo e di freno. Nella pandemia è emersa - come accaduto tante altre volte nella storia del nostro Paese - la capacità di affrontare con coraggio, abnegazione, spirito di iniziativa, situazioni eccezionali. Nel momento in cui negli ospedali si combatteva (spesso a mani nude) contro un nemico terribile, gli operatori sanitari sono stati definiti eroi. Altrettanto tutti coloro che avevano il compito di assicurare le condizioni di sussistenza e di sicurezza dei cittadini. Nell’insieme siamo sembrati un esercito ordinato e compatto, unito da una finalità comune. I Signori dell’Emergenza, che hanno fatto scuola in Europa e nel mondo.

Dall’inizio dell’autunno lo schema si è rovesciato in maniera improvvisa. Il rispetto delle regole per taluni diviene dittatura sanitaria, sull’onda di sciagurate prese di posizione di alcuni esponenti politici e di qualche persona ingiustificatamente famosa. Medici e infermieri vengono non di rado insultati, aggrediti e picchiati: trasformati da eroi in carnefici. Uno smottamento civile che sconcerta e del quale occorre cercare di individuare le radici, per capire le ragioni del capovolgimento. Non possiamo diventare il Paese che getta nel fango quelle stesse persone che fino al giorno prima aveva incoronato come «martiri».

Sul versante della società vi sono limiti di manovra nel fronteggiare lo scontento e indurre i cittadini a comportamenti responsabili e orientati al bene comune: fascisti, mafiosi, ignoranti non mancheranno mai in nessun contesto e in nessuna epoca. Ciò nonostante, occorre arginarne la pericolosità sociale con gli strumenti giuridici esistenti, ma soprattutto operando per migliorare la credibilità dei governanti e delle istituzioni che essi rappresentano. Non si può negare che negli ultimi mesi è venuta emergendo progressivamente l’altra faccia della medaglia: la scarsa attitudine di chi governa ad operare sul (e per il) lungo periodo. Ciò – pur con eccezioni - tanto a livello centrale quanto a quello locale. Andar oltre la «cultura dell’emergenza» (vanto e croce della mentalità di moltissimi italiani) è un passaggio ineludibile per far sì che da questo periodo, doloroso e complicato, si possa venir fuori positivamente. Verrebbe da dire – a costo di sembrare riduttivi – che è indispensabile far leva sulla cultura dell’ordinario. Occorre una decisa inversione di rotta, che, di regola, necessita di tempi non brevi. Ma oggi non c’è tempo, non c’è molto altro tempo. Il cambiamento deve iniziare subito (ammesso che non sia tardi) e deve poter dare i primi frutti nell’immediato. Per far ciò occorre liberare l’azione di governo dalla logica - si dovrebbe dire, dall’ossessione - del consenso, della ricerca miope di voti, piuttosto che di risultati duraturi. Non sarà facile, ma si tratta di una condizione essenziale. Al «tempo del consenso» politico è necessario sostituire il «tempo della costruzione» di orizzonti non confinati nello spazio della rielezione, ma orientati ad aprire strade che forse altri saranno chiamati a completare. Competenza, rigore morale, cura dell’interesse generale sono gli ingredienti di qualunque coalizione di forze politiche che voglia sfruttare, senza pretestuosi pregiudizi ideologici, le opportunità derivanti dal Recovery fund e dal Mes. Soltanto così si potrà ottenere una solida ri/legittimazione del ceto politico, la quale abbia nei criteri di legalità e di etica del buongoverno le sue armi vincenti.

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