Popolo curdo, tradito
in Siria come sempre

Dunque Donald Trump ha deciso: il presidente turco Recep Erdogan potrà mandare il proprio esercito nella Siria del Nord per mettere sotto controllo un’ampia fascia di territorio, in pratica una striscia profonda 30 chilometri lungo tutti i 480 chilometri del confine con la Siria. Le intenzioni di Erdogan sono chiare: mutilare la vittoria militare di Bashar al-Assad portandosi via un pezzo di Siria; trasferire nella striscia una notevole porzione dei 3,6 milioni di profughi siriani che in questi anni ha accolto in Turchia (ben retribuito dalla Ue) ma che da tempo sono mal visti dalla popolazione turca; liquidare le milizie curde che considera nulla più che formazioni terroristiche.

Altrettanto chiaro è che la decisione di Trump implica il sacrificio dei curdi, che non possono certo confrontarsi con la potenza dell’esercito turco. Ovvero, il sacrificio di coloro che hanno combattuto in prima linea, accanto agli americani e persino più di loro, contro l’Isis e che tanto sangue hanno versato per fermare il dilagare del terrorismo islamista. Trump ha cercato di correggere l’impressione generale dicendo che gli Usa si ritirano ma non abbandonano i curdi, che continueranno a sostenere con denaro e armi. Resta però l’atto di realpolitik che indigna gli europei e scontenta pure gli ambienti militari americani.

In realtà, lo spietato cinismo di Trump si accompagna a un certo grado di coerenza strategica. Nel settembre del 2017, Mas’ud Barzani, leader (curdo) del Kurdistan iracheno, convocò un referendum sull’indipendenza della regione che ottenne il 93% di «sì». La Casa Bianca, che all’epoca di Saddam Hussein era stata la grande madrina della causa curda, si affrettò a disconoscere l’esito della consultazione, aprendo così la strada alla reazione del governo centrale di Baghdad, che in pochi giorni, usando l’esercito, rimise in riga il Kurdistan.

Allora, gli Usa preferirono difendere l’integrità territoriale dell’Iraq rispetto alla fuga in avanti dei curdi, preoccupati com’erano (e come sono tuttora) della già notevole influenza dell’Iran. Oggi fanno la stessa cosa con i curdi. È più importante, per gli Usa, recuperare un rapporto con la Turchia di Erdogan, leader di un Paese della Nato che negli ultimi tempi si è pericolosamente (dal punto di vista americano) avvicinato alla Russia, che non proteggere il sogno curdo di uno Stato autonomo, magari nella versione embrionale del Rojava.

Cinico, come si diceva. Spietato. Ma le grandi potenze, si sa, non hanno ideali, solo interessi. Ed è chiaro da tempo che gli Usa di Donald Trump hanno «sposato» l’agenda di Arabia Saudita e Israele, che vedono nell’Iran e nella sua influenza sulle vicende dell’Iraq, della Siria, del Libano e dello Yemen (in pratica, di tutta la Mezzaluna Fertile) il pericolo maggiore di questo momento storico. In questo quadro, i curdi del Rojava sono piccola cosa rispetto alle sanguinose lacerazioni dell’Iraq o al possibile ruolo di un leader sunnita (non a caso in prima fila nella guerra contro Assad) come Recep Erdogan.

Con quello di Trump, i curdi mettono in archivio un altro dei tanti tradimenti subiti. Ogni Stato occidentale che abbia messo piede in Medio Oriente prima o poi ha promesso loro lo Stato. E tutti insieme lo fecero in modo ufficiale nel 1920, con il Trattato di Sévres. Nessuno ha mantenuto la promessa. La situazione attuale, però, è anche frutto di due altre realtà. Da un lato le divisioni interne allo stesso mondo curdo. L’esperimento del Rojava, democratico, assemblearista, socialisteggiante e contrario alla discriminazioni di genere, non è certo condiviso, per dire, dai curdi del Kurdistan iracheno, abituati all’esatto contrario. Non a caso i curdi iracheni e la loro dirigenza sono in buoni rapporti con la Turchia di Erdogan.

Il secondo fattore è il posizionamento dei curdi del Nord della Siria rispetto alla guerra tra Assad e il fronte ribelle. Assad offriva loro la prospettiva di una certa autonomia all’interno, però, dello Stato centralista governato da Damasco. I curdi hanno pensato che gli Usa avrebbero protetto il loro sogno, aiutandoli magari a varare un’entità indipendente a partire dal Rojava. È andata come sappiamo. Ovvero, come sempre.

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