Rottura scontata
Ma dov’è la politica?

Ciò che colpisce maggiormente all’indomani dell’assai poco sorprendente stacco della spina al governo da parte di Matteo Salvini, è proprio l’eccessiva sorpresa mostrata anche da parte di fini analisti politici e dalla maggior parte degli organi di stampa. Quasi uno straniamento dalla realtà, per molti versi irragionevole e preoccupante, soprattutto considerando il fatto che la votazione contraria alla Tav dei 5 Stelle era annunciata e certa da tempo.

Perché allora, così tanto sconcerto di fronte ad un epilogo scontato - quello del «pro Tav» contro «no Tav» - su cui gli ormai ex alleati di governo hanno in questi mesi costruito gran parte delle rispettive, antitetiche narrazioni propagandistiche? Se Di Maio e Salvini, dunque, sono giunti alla loro naturale resa dei conti nei tempi e nei modi programmati al millesimo di secondo dal ministro dell’Interno, divenuto principe indiscusso e deus ex machina della comunicazione mediatica del nostro Paese (soprattutto di quella social), ciò che si fa fatica a comprendere è la mortificante ingenuità di un «pensiero comune» che in Italia pare essersi ormai mineralizzato a tal punto da farsi guidare ovunque: nelle piazze d’agosto stracolme di ultras e trombette, sotto balconi di nefasta memoria autoritaria, nelle spiagge dei mojito e dei trenini brasiliani, negli studi dei dibattiti televisivi tenuti in vita da invettive senza più analisi e domande scomode.

Nel frattempo Salvini penserà a come poter tesaurizzare al meglio l’incasso elettorale d’autunno con nuovi tour effervescenti ed evanescenti; Di Maio cercherà disperatamente di convincere il Movimento e, soprattutto, Casaleggio, che la scelta più pagante per il futuro della leadership pentastellata sia ancora lui, anziché il predestinato e più fotogenico Di Battista; il presidente del Consiglio a termine Giuseppe Conte, tradito e livido di rabbia rancorosa, cercherà di spargere ortiche e posizionare tagliole lungo il tappeto rosso che quasi sicuramente porterà Salvini ad esserne il suo successore designato dopo il voto di ottobre. E gli altri partiti che faranno? Da un lato, la Meloni e ciò che resta di Forza Italia, pronti all’assalto di un’alleanza di governo pre e post elettorale, nella fervida speranza che il re Mida leghista non fagociti così tanti voti da non avere alcun bisogno di alleanza più utilitaristiche che strategiche. Dall’altro Zingaretti, che si dice pronto e voglioso di un poderoso riscatto elettorale, per il momento puntando principalmente, ed è questo il solito vecchio vizio del Partito democratico, più sulla critica degli antagonisti politici che su una comunicazione programmatica chiara, precisa, fattuale e fortemente ingaggiante. Senza contare la miriade di correnti, fazioni, conti in sospeso e vecchi rancori interni con cui il segretario del Pd deve fare i conti tutti i giorni e che, nonostante la sua dichiarata e credibile vocazione riformista, lo hanno spinto a ricercare un rapporto di collaborazione attiva con Matteo Renzi, che all’interno del partito gode ancora di parecchio consenso e muove le coscienze di molti suoi fedelissimi.

E l’Italia vera in tutto ciò? E le reazioni dei mercati finanziari? E la crescita economica? E il lavoro e l’occupazione? E la tutela concreta dei lavoratori autonomi e non e delle aziende? E la sbandierata necessità di contare sempre più in Europa e nel mondo? Dov’è la politica che deve fare cose, portare a casa risultati, tutelare i cittadini e valorizzare il Paese? Oggi più che mai, in tempi imbarazzanti in cui una società che rischia di perdere molto si comporta come se stesse assistendo ad un «cinepanettone» natalizio, rimane una speranza carica di fiducia. Siamo ancora una Repubblica parlamentare. Buon lavoro presidente Mattarella.

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