Sovranismo psichico
Malattia italiana

L’ultimo rapporto del Censis, il prestigioso istituto di ricerca fondato da Giuseppe De Rita, ci conferma quanto normalmente ci diciamo parlando in famiglia, in ufficio, sul tram. La differenza sta nel fatto che il sociologo, dai pezzi di esperienza che ciascuno di noi può vivere di persona, costruisce un quadro generale della società italiana con un criterio di analisi delle sue dinamiche: e quest’anno il ritratto di noi che il Censis dipinge è particolarmente sconfortante. Numeri e tabelle descrivono un Paese che è l’esatto contrario di quello che settant’anni fa si rimise faticosamente in piedi dai disastri della guerra: pieno di speranza, di voglia di vivere meglio, di crescere e di consegnare un futuro migliore ai figli. Un’Italia vigorosa e coraggiosa dove tutti, dagli operai immigrati dal Sud alla classe dirigente, si rimboccarono le maniche, e i risultati dei tanti sacrifici non tardarono.

Ora noi , che non veniamo dagli orrori di una guerra ma da dieci anni di crisi economica e finanziaria, ci scopriamo invece più sfiduciati e incattiviti oltre che più poveri, insicuri, invecchiati. Il Censis lo definisce «sovranismo psichico»: come se vivessimo rinchiusi e ripiegati in una bolla psicologica da cui non riusciamo a tirarci fuori e da dove guardiamo con ostilità all’esterno. Del resto, tutti i rilevatori sociali elencati sono negativi: siamo ben lontani dal tasso di sviluppo del 2007 (con la sola eccezione di Lombardia ed Emilia Romagna), il Nord e il Sud sono sempre più lontani, i giovani esclusi dal mercato del lavoro, l’istruzione poco sostenuta, pochi i laureati, l’ascensore sociale fermo, la prospettiva di crescita individuale e familiare largamente negata, e la paura per il futuro fa da ovvio pendant – come sempre nella Storia, ricordiamocelo – all’ostilità verso il «diverso», verso chi ci «invade», ci «ruba il lavoro», viene qui a «delinquere», insomma verso chi è più povero e bussa alla porta di una famiglia col cuore stretto dall’angoscia e che, nel mondo digitale, fa rimbombare le paure dai social ossessivamente compulsati.

Di fronte a tutto ciò c’è la profonda frattura con la politica: quel trenta per cento di italiani che ormai non va a votare non crede più in nulla, né nella classe politica nazionale né nell’Europa, pensa che nessuno difenda i suoi interessi, si sente alla mercé di qualunque offesa o possibile danno. Se queste analisi suonano come una drammatica critica ai politici di ogni genere, quelli che stanno al governo in nome del «cambiamento» dovrebbero prestare un’attenzione ancora maggiore: perché c’è una larga fetta di Italiani, circa la metà, che non crede che questo cambiamento stia avvenendo e ne trae un’ulteriore motivo di scoramento e di rancore.

Una classe politica degna di questo nome dovrebbe indicare una strada ad una società in queste condizioni penose e dovrebbe essere sufficientemente credibile per individuare un traguardo. Ma questo apre un discorso che il Censis non affronta, ossia il reclutamento della classe politica che oggi palesemente avviene a casaccio.

E allora: c’è, nonostante tutto, un’Italia completamente diversa da quella che emerge dall’analisi sociologica, ed è composta e popolata da eccellenze, lavoro, internazionalizzazione, creatività, intelligenza, ricerca, spirito innovativo e di intrapresa. Sarà un’Italia minoritaria ma c’è, è anzi spesso da primato, ed è probabilmente quella che tiene a galla la barca comune. Quegli italiani purtroppo sono perlopiù assenti e lontani dall’impegno per la cosa pubblica e, a differenza di settant’anni fa, lo disdegnano con insofferenza. Bisogna pur ricordare però che senza l’Italia migliore il quadro del Censis non potrà che peggiorare.

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