Sudan, colpo di Stato
Ora nuova stabilità

Almeno in Sudan, la storia si ripete. Con quello delle scorse ore, che ha cacciato l’autocrate Omar Hassan al-Bashir, al potere da trent’anni, siamo al terzo colpo di Stato realizzato dai militari in nome e per conto della società civile. Nel 1964 per liberarsi del generale Ibrahim Abboud, nel 1985 per liberarsi di Ja’far al-Nimeiry (militare anche lui, salito al potere con un colpo di Stato) e adesso per mettere fine alla lunga era di Bashir. L’agonia del regime era cominciata in dicembre, quando l’aumento violento dei prezzi del pane aveva scatenato le prime manifestazioni.

Il colpo di grazia è arrivato quando l’Associazione professionale sudanese, che con alcuni partiti ha guidato le proteste, si è detta disponibile al dialogo con le forze armate e i servizi di sicurezza fedeli a Bashir, per tutta risposta, hanno sparato sulla folla. A quel punto, come già in passato, i militari si sono schierati con gli oppositori e Bashir è finito agli arresti.

Una svolta che, nel racconto dei media, è parsa rapida, quasi improvvisa, ma che nella realtà si preparava da tempo. Almeno dal 2011, quando la secessione del Sudan del Sud aveva privato il dittatore e il suo regime del 70% dei proventi del petrolio, risorsa concentrata nella regione diventata Stato autonomo. La crisi economica era esplosa senza che alcuno, dalle parti di Khartoum, sapesse trovare rimedio. Bashir è rimasto in sella finora grazie agli appoggi internazionali che aveva saputo procurarsi con l’abilità manovriera che tutti gli hanno sempre riconosciuto. In primo luogo quello dell’Egitto e delle monarchie sunnite del Golfo Persico, che aveva tirato dalla propria parte scaricando l’Iran dopo lunghi anni di alleanza. Soprattutto l’Arabia Saudita si è mostrata generosa, ricompensando il regime sudanese, che si era impegnato a mandare 10 mila soldati a combattere nello Yemen accanto alla truppe saudite, con quasi 2,5 miliardi di dollari di investimenti.

Quel salto della quaglia (dagli sciiti ai sunniti) aveva guadagnato a Bashir altri vantaggi. I Paesi occidentali che hanno relazioni strategiche con le petromonarchie hanno cominciato a guardarlo in modo diverso. Di colpo Bashir non era più il dittatore che aveva dato ospitalità a Osama bin Laden e che dal 2009 è inseguito da un mandato di cattura del la Corte penale internazionale per i crimini di guerra commessi nel Darfur, ma un prezioso alleato.

Ai tempi di Barack Obama gli Usa tolsero le sanzioni economiche prima decretate contro il Sudan e oggi Khartoum ospita una grande base della Cia. Francia e Regno Unito sono arrivate a ruota. L’Europa ha sottoscritto il Khartoum Process come protocollo per frenare, attraverso il dialogo con i Paesi africani, il traffico di esseri umani e i flussi migratori verso il Mediterraneo. Così, in un modo o nell’altro, Bashir è riuscito ad arrivare fino ai giorni scorsi.

Adesso si apre un processo di transizione che non resterà a lungo nel mani dei soli protagonisti locali. Basta guardare una cartina per capire quanto strategica sia la posizione del Sudan, tra Egitto, Libia, Ciad, Etiopia, Eritrea e Mar Rosso, senza dimenticare il Sudan del Sud delle immense risorse naturali e della tragica guerra civile. Un Sudan instabile può innescare un effetto domino di paurose proporzioni. Usa, Arabia ed Egitto si stanno già muovendo per ottenere l’effetto opposto, ovvero la maggior stabilità possibile. Del resto Al Sisi, il presidente dell’Egitto, l’aveva detto poche settimane fa, quando Bashir era andato in visita ufficiale al Cairo: «L’Egitto appoggia la sicurezza e la stabilità del Sudan, che è parte integrante della sicurezza nazionale dell’Egitto». Noi non lo sappiamo ma da qualche parte, a Khartoum, qualcuno si sta già preparando a fare il Presidente.

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