Taranto riporta
il governo alla realtà

Proprio nel giorno in cui la manovra di Bilancio 2020 arriva in Senato scoppia la bomba dell’Ilva di Taranto. Arcelor Mittal se ne va, restituisce ai commissari straordinari le chiavi della seconda acciaieria d’Europa e accusa di questo il governo per non aver concesso la tutela legale nell’opera di bonifica, e i giudici che minacciano la chiusura del secondo altoforno. Ora ballano diecimila posti di lavoro, ventimila con l’indotto, e due città vengono affondate nella crisi, Taranto e Genova.

È inevitabile pensare che questo fatto gravissimo che accade in un Mezzogiorno affamato di lavoro (l’Ilva era rimasta l’unica grande fabbrica del Sud) si ripercuoterà sul governo, sui grillini sempre ostili all’Ilva (l’ultimo emendamento anti tutela è stato firmato dalla ex ministra del Sud Barbara Lezzi eletta a Taranto e a suo tempo accusata di «tradimento» dai militanti locali per non essersi battuta a sufficienza per la chiusura dell’impianto) e sul Pd per non aver forzato Di Maio a tornare sui suoi passi. Salvini, guardando la scena dall’esterno, da ora ha un argomento in più contro la coalizione giallo-rossa per aver affossato un’azienda enorme che da sola vale un punto e mezzo di Pil.

La precipitosa riunione ministeriale d’urgenza convocata ieri pomeriggio da Patuanelli tenta di mettere una toppa al disastro che si sta producendo ed è persino ipotizzabile che si cerchi di correre ai ripari concedendo ad Arcelor Mittal quello che è stato finora orgogliosamente negato. Era etichettato come «allarmista» chi ripeteva che il gruppo dell’acciaio indo-europeo faceva sul serio e che l’avvertimento lanciato questa estate («Senza tutela legale a settembre chiudiamo») non era un bluff. Tanto più che il gruppo aveva mandato a Taranto l’amministratrice delegata delle acciaierie di Terni, una lady di ferro il cui arrivo aveva un solo significato: non scherziamo. Tanto più che il mercato mondiale dell’acciaio va male.

In questo contesto, la discussione sulla tassa sulla plastica o sulle auto aziendali – misure già laterali in una manovra da 30 miliardi – scoloriranno sullo sfondo e forse il dibattito sulla finanziaria tornerà con i piedi per terra. Finora i partiti hanno preso in ostaggio la legge di Bilancio per il loro scontro politico: Di Maio per ribadire una centralità nella coalizione che gli sta sfuggendo di mano insieme ai voti che se ne vanno; i piddini che guardano con terrore al rischio che in gennaio la Lega possa conquistare l’Emilia Romagna, l’ex fortezza rossa che in realtà è ormai largamente votata al verde; e infine Renzi che proprio attraverso la guerriglia sulla finanziaria ha esercitato il suo potere di ricatto al punto da lanciare avvisi di sfratto al presidente del Consiglio.

Ora Taranto dovrebbe riportare tutti alla realtà: le modifiche si faranno nei prossimi due mesi che ci dividono dalla data ultima per l’approvazione definitiva, e probabilmente le misure più controverse saranno rimandate di qualche mese o un anno. Quel che non potrà cambiare è il «perimetro» della manovra, la sua entità, il livello di deficit cui la Commissione Europea ci consenta di arrivare accordandoci ancora un poco di flessibilità sui conti pubblici. Su questo il ministro dell’Economia Gualtieri è stato netto: i miglioramenti sono sempre possibili ma i saldi devono rimanere invariati altrimenti salta tutto. Se però l’Ilva dovesse trasformarsi in una seconda Alitalia e lo Stato volesse mantenerla in vita nonostante tutto, questo si rifletterà sulla finanziaria perché ci saranno maggiori spese e dunque serviranno più entrate.

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