Troppa Germania
fa male all’Europa

In gran parte dell’opinione pubblica tedesca si è fatto strada il convincimento che la Germania rappresenti la spina dorsale di un’Europa nella quale gli altri Paesi costituiscono per lo più pesanti fardelli. Da qui l’idea che per salvaguardare la loro forza economica sarebbe vantaggiosa l’uscita dall’euro o, in alternativa, che venga dato il benservito ed escano i Paesi del Sud Europa, afflitti da un elevato debito pubblico. Un’analisi attenta, tuttavia, contraddice tali valutazioni di parte. Con l’avvento dell’euro, infatti, la Germania si è trovata in una posizione privilegiata grazie a politiche economiche lungimiranti, adottate negli anni precedenti, che l’hanno portata ad essere un Paese largamente esportatore.

Nei primi anni Novanta – dopo la caduta del muro di Berlino, per affrontare l’elevata disoccupazione derivante dalla decisione di riunificare le due Germanie – il governo tedesco adottò, con il consenso dei sindacati, una dura politica di compressione salariale che, attraverso la diminuzione del costo del lavoro, portò ad un progressivo e sensibile aumento delle esportazioni. Dall’inizio del nuovo millennio, in presenza di una moneta stabile come l’euro, la Germania ha potuto continuare ad esportare più di quanto importava. In quindici anni ha realizzato un surplus nell’import-export che ammonta a circa 300 miliardi di euro, pari al 9% del Pil, il più grande del mondo, superiore anche a quello della Cina (200 miliardi). Va considerato che il mercantilismo tedesco danneggia soprattutto i Paesi del Sud Europa, che ne pagano le conseguenze con una crescita più bassa. La stessa Commissione europea ha giudicato «eccessivo» il surplus tedesco poiché in base ai Trattati europei non deve superare il 6% del Pil. Da qui, reiterati interventi con i quali è stato chiesto alla Germania di ridurre il surplus commerciale, mediante maggiori investimenti pubblici o un aumento del costo del lavoro. Richiami ad oggi rimasti inascoltati.

Fino a quando non vi sarà una presa di coscienza della Germania sulla necessità di adeguarsi alle raccomandazioni della Commissione europea, le divergenze tra le economie dei Paesi all’interno dell’area non potranno che aumentare. Un ravvedimento tedesco, invece, potrebbe spingere anche i Paesi più indebitati ad adottare politiche di bilancio più rispettose dei parametri europei. Ne deriverebbe una revisione profonda del quadro attuale, che potrebbe ridare avvio all’antico progetto politico di tipo federalista, con il principale obiettivo di realizzare un bilancio comune e la trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza, con il potere di garantire il debito dei vari Paesi, evitando differenziali del costo del debito tra nazioni che condividono la stessa valuta (spread).

In questa direzione va la proposta del nostro ministro per i Rapporti con l’Europa Paolo Savona, che ha sollecitato la Commissione europea ad «istituire un gruppo di lavoro ad alto livello, composto da rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento Europeo e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione». La proposta di Savona potrebbe certamente incontrare maggiore ascolto, però, se fosse accompagnata da efficaci misure del governo orientate ad un progressivo rientro dal debito, che rende particolarmente critici i nostri conti.

In realtà, l’attuale legge finanziaria appare orientata in tutt’altra direzione e, dopo che la Commissione europea ha avviato una procedura per debito eccessivo, il governo, sollecitato anche dal presidente Mattarella, pare si renda disponibile a rivedere in qualche misura le sue posizioni. Va considerato che a peggiorare la nostra credibilità sui mercati internazionali contribuisce anche chi, nell’ambito dell’attuale maggioranza parlamentare, parla ancora di uscire dall’euro, nonostante sia sotto gli occhi di tutti la disastrosa esperienza della «Brexit».

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