Usa, uno a uno
ma non è pareggio

Il «referendum» su Trump si è consumato, con gli elettori americani che, più numerosi del solito, hanno deposto il loro voto nelle urne. E dopo diversi e recenti passi falsi i sondaggisti possono brindare perché è successo ciò che avevano previsto: i repubblicani perdono il controllo della Camera, che torna sotto il controllo dei democratici dopo otto anni, ma mantengono la maggioranza al Senato. È successo - senza nulla togliere ai sondaggisti - ciò che quasi sempre succede: il presidente in carica perde seggi nel voto di metà mandato.

Obama nel 2014, nonostante fosse un po’ più alto nel gradimento degli elettori, perse addirittura sia la maggioranza alla Camera che quella al Senato. La novità è che però raramente un presidente americano si era presentato all’appuntamento elettorale di midterm con dati economici così eccezionalmente positivi: crescita oltre il 2%, disoccupazione sotto il 4%, Borsa cresciuta di quasi il 20 per cento in due anni pur con le correzioni delle ultime settimane. Serviranno alcuni giorni per un’analisi dettagliata, seggio per seggio, Stato per Stato di questo risultato. Ciò che già oggi possiamo dire è che questo risultato incrina il «fenomeno» Trump ma non ne decreta necessariamente la fine.

Trump continuerà a twittare in modo compulsivo - nonostante abbia qualche deputato in meno - così come continuerà le sue politiche incentrate sugli slogan America First e Make America Great Again, attuate grazie ai poteri che la Costituzione concede al presidente senza passare per il voto parlamentare, ora meno scontato da ottenere. Lo ha fatto per cancellare Trattati (clima e Iran); per introdurre dazi per 250 miliardi; per spostare l’Ambasciata a Gerusalemme; per i raid aerei in Siria. Avrà certamente maggiori difficoltà sul fronte interno, su temi dove il Congresso ha voce in capitolo: nel modificare ulteriormente Obama Care, o nel costruire il muro lungo il confine con il Messico (che in questi primi due anni è avanzato di soli 4 km!). Ma la maggioranza democratica alla Camera gli fornirà l’alibi - con il «popolo» - per giustificare quello che non riuscirà a fare. Un atteggiamento non nuovo che lo stesso Trump ha tenuto anche durante questi primi due anni in cui additava al Congresso (controllato dal suo partito!) le responsabilità per mancati progressi su temi per lui prioritari.

Trump dovrà poi con ogni probabilità difendersi dai numerosi comitati di indagine che i Democratici cercheranno di avviare per dare al Congresso la possibilità di indagare nei rapporti del presidente con la Russia, o sulle sue passate dichiarazioni dei redditi, mai rese pubbliche. Sbaglia però chi pensa che qualche deputato repubblicano in meno renda più vicino l’impeachment: per avviare questo processo occorre una maggioranza in entrambi i rami del Congresso.

Ma soprattutto sbaglierebbero i democratici a credere che qualche deputato in più sancisca la fine della crisi di identità del loro partito. Nonostante alcuni risultati incoraggianti nelle periferie e tra i ceti meno abbienti, non sono riusciti a sfondare nelle roccaforti del trumpismo, né sono emersi con decisione nuovi leader in grado di rappresentare il partito alle presidenziali del 2020. Soprattutto, il partito non ha ancora trovato una chiara direzione, diviso com’è tra l’anima «centrista» e quella «socialista» alla Sanders.

Uno pari dunque, e non è un caso che tutti in queste ore stiano cantando vittoria. I Democratici hanno staccato i Repubblicani con un margine tra i più ampi nella storia, ma su scala nazionale quella che doveva essere - nelle loro intenzioni - «un’onda blu» si è rivelata alla fine una piccola increspatura. La parola fine al fenomeno Trump passerà probabilmente solo dalle presidenziali del 2020: ad oggi, nonostante qualche deputato in più, è tutt’altro che chiaro chi potrà scrivere quella parola.

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