Violenza e follia
Terrore in Germania

Yom Kippur, il giorno dell’espiazione e della riconciliazione, è la festa più solenne del calendario. Non è un caso, quindi, se proprio ieri Stephane Balliet, 27 anni, noto militante dell’ultradestra di ispirazione nazista, ha deciso di dirigersi con un’auto piena di armi verso la sinagoga di Halle, la più importante del land tedesco della Sassonia-Anhalt. Almeno due le vittime della sua incursione solitaria, fermata infine dalla polizia dopo un tentativo di fuga in autostrada.

Pare che il giovane assassino, mentre sparava e nello stesso tempo trasmetteva in streaming su Internet la propria furia, sia stato udito gridare che «gli ebrei sono la causa di tutti i problemi» e che «l’Olocausto non è mai esistito». Parole e concetti deliranti. Infatti è uno di quei casi in cui al killer si appiccica volentieri l’aggettivo «folle». Può anche darsi che le indagini confermino la sbrigativa diagnosi mediatica e che Balliet mostri problemi psicologici o mentali. Tutto questo, però, a noi non deve interessare.

Quando gesti analoghi vengono compiuti da assassini che si ispirano all’islam (per fare solo un esempio), parliamo di «lupi solitari» e non di folli. Anche se spesso questi lupi sono davvero squilibrati, né meno né più di Balliet o di quel Brenton Tarrant che nel marzo scorso ha ucciso cinquanta persone attaccando due moschee in Nuova Zelanda.

Tutto questo per dire che il fanatismo ha molte forme, ognuna delle quali si nutre dell’esempio altrui. Una strage incita ad altre stragi, qualunque sia il «colore» del precedente. È un ammonimento che ci arriva proprio dalla Germania. Nel giugno scorso, un altro «folle» di estrema destra aveva assassinato Walter Lubcke, un politico democristiano dell’Assia giudicato da alcuni fanatici «troppo amico degli immigrati». In quell’occasione, l’Ufficio per la difesa della Costituzione (i servizi segreti interni della Germania federale) aveva diffuso l’annuale rapporto sulle minacce contro lo Stato. Secondo il documento, in Germania sono attivi 24 mila estremisti di destra, 32 mila di sinistra, 30 mila stranieri di diverse ideologie radicali e 27 mila islamisti radicali. Ebbene, almeno 13 mila degli estremisti di destra mostravano, secondo il rapporto, una spiccata propensione alla violenza.

Non c’è ragione, quindi, di indulgere a troppo sottili distinzioni in base al credo politico o alla fede religiosa. E neppure in base al certificato medico. Il vero discrimine sta nella disponibilità ad accettare il gioco democratico, che esclude a priori qualunque uso della violenza. È questo il setaccio che dobbiamo rendere sempre più fine, per intercettare le sacche di intolleranza pronte a sfogarsi oggi contro gli ebrei, domani contro i musulmani, dopo domani contro chiunque stia passando per strada.

E vale forse la pena di tentare un’ulteriore e duplice considerazione. Le società di mezza Europa si sono molto concentrate, negli ultimi tempi, sullo spettro della «rinascita del fascismo», avventurandosi così su un difficile crinale. Perché non è sempre facile (e qualche volta nemmeno giusto) distinguere tra un discutibile ma onesto pensiero di destra e un disonesto e inaccettabile revanscismo. Così facendo, si è rischiato di colpevolizzare uno schieramento politico comunque interno al gioco democratico, lasciando spazio a estremisti che di quel gioco si fanno beffe. Nello stesso tempo, e sempre in Europa, molti leader di destra hanno flirtato con quegli estremisti, convinti forse di poterli usare senza farsene contaminare. Un errore anche questo. Con la violenza razzista non si scherza mai. Nemmeno con quella dei folli o presunti tali.

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