«Zone rosse»
Diritto a pezzi

Lascia molto perplessi la decisione del Comune di Calolziocorte di suddividere il territorio tra zone rosse, proibite agli insediamenti dei centri di accoglienza per immigrati (in prossimità di edifici scolastici e stazione ferroviaria) e zone blu, vicini a oratori e biblioteca, dove per installare questo genere di strutture è necessario il nulla osta del Comune.

È una decisione che parte da un presupposto discutibile, sul piano del diritto, non solo umanitario, inaccettabile: che i centri di accoglienza siano luoghi molto pericolosi, e dunque pericolosi gli immigrati che ne fanno parte, solitamente richiedenti asilo fuggiti dalla fame e soprattutto dalla guerra, oppure da un regime che impone torture, persecuzioni e un servizio militare che dura tutta la vita.

Sono pregiudizi che si scontrano con la nostra concezione umana, umanitaria e finiscono per collidere con la prima parte della Costituzione, in particolare l’articolo 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») e soprattutto l’articolo 10 che impone il diritto d’asilo («Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge»).

Non si possono accomunare i centri di accoglienza con altre strutture ben più pericolose per scuole e biblioteche, come ad esempio i «casinò» e le «slot machine», le cui sedi sono giustamente tenute a debita distanza dalle scuole per evitare tentazioni e adescamenti. Qui si parla di rifugiati, di uomini, donne, vecchi e bambini che hanno il diritto di essere accolti e che andrebbero integrati, una volta riconosciuti i loro diritti e il loro «status», nel tessuto vivo della comunità e della società.

Lascia perplessi anche il nome che viene dato a queste sezioni urbane. La «zona rossa» fa venire in mente le zone disastrate dalle calamità, dove sono presenti i pericoli per i cittadini. Oltretutto stabilire la sede degli insediamenti lontani da queste zone, che per forza di cosa sono in centro-città, portandole in aree di periferia, sortisce l’effetto opposto, quello di una «guerra dei poveri» simile a quello che è accaduto – per fare un esempio – nelle grandi periferie urbane romane di Tor Bella Monaca e Torre Maura.

La gestione ordinata dell’integrazione passa da un sistema di accoglienza il più minuzioso e diffuso possibile, non certo dall’accentramento di immigrati in zone di periferia. Spesso nella gestione dei progetti di accoglienza si è proceduto in maniera opposta.In alcuni Comuni si sono sistemati in palazzoni abitati da poche famiglie di italiani centinaia di richiedenti asilo, così da ribaltare la situazione, e finire per ghettizzare i residenti del luogo, finiti in mezzo a grandi gruppi di immigrati provenienti dallo stesso Paese africano: etiopi, nigeriani, eritrei.

La soluzione passa per un’integrazione senza pregiudizi e senza strumentalizzazioni propagandistiche, organizzata, flessibile, capace di sfruttare al meglio le potenzialità dei richiedenti asilo, nel pieno rispetto della popolazione locale, in modo da favorire il più possibile il dialogo e la cooperazione. Altrimenti si finisce solo per creare ghetti, e al limite, persino una concezione urbanistica molto simile all’apartheid. Sarebbe il colmo che la segregazione, sconfitta definitivamente in Sudafrica, finisse per attecchire nelle nostre città.

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