«Da 700 giorni in prima linea contro il coronavirus», la lotta dell’ospedale Bolognini

Covid, dall’inizio dell’emergenza oltre 3mila pazienti curati dall’Asst Bergamo Est. Su L’Eco di Bergamo in edicola mercoledì 26 gennaio il reportage di due pagine.

Il «bip» dei macchinari è il metronomo di un tempo che pare dilatato, infinito. Settecento giorni, sciolti uno dietro l’altro da quel 23 febbraio, replicano una quotidianità costante eppure unica, sempre diversa. Che porta con sé la fatica di cui sono intrise le tute di medici e infermieri, il «respiro» perpetuo della C-Pap o il sospiro di chi, ora senza più necessità dell’ossigeno, inizia a emergere dall’apnea della malattia. All’ospedale «Bolognini» di Seriate è un «pezzo» della Chirurgia a essersi trasformato in area Covid, l’ennesima metamorfosi richiesta da questa lunga notte pandemica che della resilienza ha fatto la propria cifra organizzativa. Quindici pazienti sono accolti in queste stanze, in camere da due; altri due malati sono in Terapia intensiva, dove è stata ricavata l’area Covid per i pazienti critici.

Il silenzio, intervallato dai suoni delle strumentazioni o dai passi del personale sanitario, spezzato ora da uno squillo di telefono ora da un consulto coi medici, avvolge in un’ovatta delicata l’angolo ben isolato dell’ospedale. È l’avamposto di una mareggiata che ha di nuovo innalzato la pressione ospedaliera anche qui, terra martire della primavera 2020: l’Asst Bergamo Est ieri contava anche 33 pazienti Covid nel reparto per acuti di Alzano e altri 18 sub-acuti a Lovere. All’apice dell’ondata invernale del 2020, tuttavia, i pazienti totali erano arrivati a sfiorare i 150. Dall’inizio dell’emergenza, sono oltre 3mila i pazienti curati dall’Asst Bergamo Est.

A due anni ormai dai bagliori della tempesta che ha sconvolto Bergamo come il mondo, ci si misura però con qualcosa di inedito: «Questa è un’ondata totalmente atipica – riflette Paola Neri, medico referente dell’area Covid del “Bolognini” –. È cambiato il tipo di pazienti, e ci si confronta con l’ondata Covid in una situazione in cui si vive normalmente, con tutte le attività aperte. La differenza vera la fa il vaccino: chi non è vaccinato affronta ancora la polmonite come due anni fa, nel 75% dei casi è così. Poi c’è chi magari è vaccinato ma non ha ancora ricevuto la terza dose: in alcuni casi arrivano con un inizio di polmonite, ma la superano rapidamente». Due o tre settimane la degenza media dei non vaccinati, contro i pochi giorni di chi invece il vaccino l’ha ricevuto; il virus non guarda più alla carta d’identità: molti pazienti hanno i volti segnati dall’età come nell’oleografia della prima o della seconda ondata, sino a trovare in reparto una 94enne, ma fino a un paio di giorni fa qui era ricoverato un 29enne e poco prima anche una 19enne. Non erano vaccinati.

Il cuore e la testa

«Questi sono i giorni del picco», nota la dottoressa Neri. Sono 150 gli operatori dell’Asst impegnati nell’assistenza Covid, distribuiti sui vari presìdi; l’affiatamento lega infermieri e medici, è collante contro lo scoramento. Perché non c’è solo il Covid: c’è l’attività ordinaria da salvaguardare, le vaccinazioni senza sosta (quasi 800mila le dosi iniettate dall’Asst da inizio campagna), i tamponi da garantire (circa 170mila quelli processati). «Alla quarta ondata, è pesante – sospira un’infermiera, bardata nella tuta come da quasi due anni a questa parte, il sorriso celato oltre mascherina e visiera protettiva –. C’è stanchezza, ma anche il massimo impegno. Come ci si confronta con i non vaccinati? All’inizio poteva esserci un po’ di risentimento, adesso siamo nel pieno dell’onda e non ci facciamo caso. Magari ci sarà tempo per riflettere più avanti, quando sarà finita». «Tra i non vaccinati qualcuno si pente, altri tornano a casa con la propria idea – ragiona Paola Neri –. Non sono aggressivi, magari sono diffidenti».

Le stanze di degenza spalancano l’osservatorio su una pandemia che davvero, oggi forse come mai prima, unisce biografie distanti. Nei letti s’incrociano la signora bergamasca in lenta ripresa o il giovane straniero in videochiamata con i cari lontani, e poi ancora gli anziani, i più fragili e silenziosi, attesi da una nuova prova di forza contro il virus. «Se ci aspettavamo quest’altra ondata? Col cuore, no – sospira Paola Neri –. Ma con la testa sì, era prevedibile e nessuno si era illuso. Sicuramente non ci si era illusi dopo la seconda e la terza ondata: magari dopo la prima, a maggio 2020 quando non arrivavano più pazienti dopo i tantissimi di marzo e aprile, la si pensava diversamente e c’era più fiducia. Ma la storia delle pandemie è questa, la convivenza è prolungata». A 700 giorni da quando tutto è iniziato, il «bip» dei macchinari ripete che ancora non è finita.

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