Delitto di Seriate, il pm presenta appello:
«Il Dna di Tizzani sul cutter è una prova»

Gianna Del Gaudio fu uccisa con una coltellata alla gola la notte del 27 agosto 2016 nella villetta di piazza Madonna delle Nevi a Seriate. Dopo l’assoluzione del marito in primo grado il pm Cocucci chiede l’appello. Chiesta l’acquisizione delle interviste.

Il Dna di Antonio Tizzani, «in considerazione della collocazione della traccia, deve ritenersi avere valore di prova e non di semplice indizio». Il codice genetico appartenente all’ex capostazione assolto in primo grado con formula piena dall’omicidio della moglie Gianna Del Gaudio, uccisa con una coltellata alla gola la notte del 27 agosto 2016 nella villetta di piazza Madonna delle Nevi a Seriate, in virtù della posizione in cui è stato repertato, «e cioè proprio sull’arma», è «circostanza dimostrativa non solo della mera presenza dell’imputato sul luogo dell’omicidio, ma anche della sua partecipazione ad esso». Lo scrive il pm Laura Cocucci nei motivi d’appello con cui chiede un processo in secondo grado elencando quelle che, a detta sua, sono le «contraddittorietà e la manifesta illogicità» della sentenza emessa il 23 dicembre scorso dalla Corte d’assise presieduta da Giovanni Petillo. Tra i punti salienti dell’appello del pm, che in primo grado aveva chiesto l’ergastolo, c’è il Dna dell’ex ferroviere, rilevato su un punto della lama del cutter usato per uccidere l’ex insegnante.

La sentenza di Petillo, accogliendo la tesi del difensore Giovanna Agnelli e del consulente genetico Giorgio Portera, non aveva escluso la contaminazione nei laboratori del Ris di Parma (l’analisi del tampone salivare di Tizzani e della traccia sul cutter potrebbero essere avvenuti sullo stesso banco di lavoro) o da trasferimento dal sacchetto di mozzarelle in cui era stato depositato dall’omicida, sacchetto presente in casa Tizzani e che dunque poteva essere stato precedentemente maneggiato dall’imputato.

«Dna, nessuna contaminazione»

Per smentire l’ipotesi della contaminazione da laboratorio il pm, nel suo appello, cita la testimonianza del tenente colonnello del Ris Alberto Marino, il quale in aula disse che era stata rispettata «la buona pratica di laboratorio, citata da tutte le linee guida, di non lavorare contemporaneamente il campione di confronto e la traccia». Marino aveva affermato che il campione «non è stato lavorato sulla stessa piastra e non nelle stesse date». Quanto alla contaminazione da trasferimento, il pm osserva che sul sacchetto di mozzarelle non è stato ritrovato il Dna di Tizzani, né altro materiale genetico, forse per la caratteristica della plastica (liscia) inadatta a trattenere tracce. E dunque, conclude Cocucci, non è logico parlare di trasferimento dal sacchetto al cutter. A innescare i dubbi della Corte d’assise era stato anche il punto in cui era stato repertato il Dna di Tizzani: una zona della lama interna al manico, protetta da eventuali contatti diretti, tanto che il Ris per trovarlo aveva dovuto smontare il taglierino. Per il pm questa traccia sarebbe stata lasciata «all’atto di movimentare la lama», prima che venisse commesso l’omicidio. E questo, per il pm, sarebbe compatibile anche col fatto che Tizzani avrebbe indossato guanti di lattice al momento di aggredire la moglie, mentre prima no. Gli altri 3 dna ignoti repertati non sono influenti, per Cocucci. Nemmeno Ignoto 1 che ha l’aplotipo Y in comune con il profilo genetico rilevato nel delitto di Daniela Roveri, la manager uccisa allo stesso modo a Colognola 4 mesi più tardi. Un serial killer? «Mera ipotesi che potrebbe essere smentita dalla realtà dei fatti», annota il pm.

Il quale resta convinto che il movente del delitto siano i maltrattamenti cui l’imputato avrebbe sottoposto negli anni la moglie (ma è stato assolto anche da questo). Quella sera, stando alla Procura, l’ex ferroviere avrebbe perso il controllo. La sua condotta, scrive Cocucci, «appare caratterizzata da un dolo d’impeto scatenato da un motivo specifico che non è stato possibile accertare, ma comunque legato a una lite», che per l’accusa sarebbe esplosa fra i coniugi poco dopo la mezzanotte, e cioè subito dopo che il figlio Mario e la compagna se n’erano tornati a casa dopo la cena.

I testimoni che udirono la lite

E a tale proposito, per il pm, sono importanti i testi «uditivi», ossia coloro che hanno sentito voci concitate. In particolare due ragazze che stavano chiacchierando in auto. Le due tra le 00,15 e le 00,20 avevano sentito «urla molto forti di un uomo; erano urla rabbiose». Una delle due aveva aggiunto che «a tratti si sentiva anche la voce molto flebile di una donna che piangeva disperata». Una volta in caserma, le giovani avevano riconosciuto la voce come quella di Tizzani, che in quel momento veniva interrogato in una stanza. La Corte d’assise aveva concluso che non c’erano elementi netti per capire se quelle urla fossero da ricondurre a una lite o piuttosto alla disperazione e alle sfuriate di Tizzani dopo che aveva scoperto il corpo della moglie. Ma, sottolinea Cocucci, in questo caso le ragazze parlano di due fasi distinte, con una pausa di silenzio in mezzo.

Il delitto il pm lo fa risalire alle 00,35. Alle 00,40 Tizzani è al telefono col 112. Poteva in 5 minuti un uomo di 68 anni (all’epoca) e con un fisico tutt’altro che atletico, percorrere i 900 metri tra andata e ritorno che dividono la sua casa da via Presanella, dove fu poi ritrovato il sacchetto con i guanti e il cutter? No, tanto che in una simulazione i carabinieri ci avevano impiegato 14 minuti. E allora, sostiene il pm, può essere che Tizzani se ne sia sbarazzato in un secondo momento.

Infine, il pm chiede alla Corte d’assise d’appello che vengano esaminate le numerose interviste tv che l’ex ferroviere aveva concesso e che i giudici di primo grado scelsero di non acquisire. Per Cocucci l’imputato avrebbe modulato le risposte a seconda delle novità investigative che emergevano di volta in volta: una tattica per costituirsi un alibi, è convinto il pm.

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